Captive State - La Recensione

Captive State Wyatt
Gli alieni hanno conquistato la terra. Ci hanno sconfitto  militarmente e, anziché sterminarci, obbligato a eseguire i loro ordini. Lo scopo è quello di prendere le risorse in nostro possesso ed esportarle sul loro pianeta. Chi ha accettato la nuova legislazione – che comprende anche l’impianto di una cimice di controllo nel collo – è rimasto vivo, chi si è rifiutato e ha provato a fuggire, non è più tra noi. Tranne i ribelli. Loro fanno caso a parte: un gruppo di esseri umani reazionari, spariti dai radar, in gran parte vittime di una guerra perduta, ma ancora numericamente abbastanza per poter accendere un fuoco e rimettere tutto in discussione.

Quella di “Captive State” – e lo si capiva già dal (minimo) materiale sviscerato in fase promozionale – è fantascienza d’autore: ovvero quel tipo di fantascienza che rinnega la spettacolarità estetica e gratuita delle grandi produzioni hollywoodiane, rilanciando di minimalismo e affidandosi a una narrazione dall'impalcatura più solida e originale. Volessimo trovare un termine di paragone per inquadrarlo meglio, potremmo chiamare in causa “Arrival” di Denis Villeneuve: prendendo, tuttavia, le rispettive distanze o misure di sicurezza, causate se non altro da un ritmo qui eccessivamente più forsennato (relativamente, è) e da una tendenza a calarsi nel thriller-action che nella pellicola con Amy Adams figuravano come tratti decisamente più schiariti e sommessi. Il regista e co-sceneggiatore (insieme a Erica Beeny) Rupert Wyatt, però, sembra essere sicuro di sé, di quello che ha tra le mani e in particolare della forza di un intreccio assemblato per fornire pochissimi punti di riferimento, tanti misteri, alternandosi di volta in volta tra le vicende dell’agente John Goodman - incaricato di stanare e catturare coloro che stanno tramando contro gli alieni - e quelle dei ribelli, alle prese con un piano articolatissimo che dovrebbe rimettere in discussione ogni gerarchia e rilanciare il genere umano.

Captive State WyattMa archiviato un prologo piuttosto energico, girato camera a mano (come del resto è gran parte del film) e quindi tesissimo - per via anche di questi alieni presentati in forma umana (testa, braccia e gambe), ma dalla conformazione simile a quella dei ricci – “Captive State” sembra compiere una sorta di parabola discendente a flusso costante. Se è comprensibile – e intrigante – infatti, il rallentamento esplicativo subito nelle fasi iniziali, dove personaggi e intenti vengono messi sul piatto per somministrare carattere e densità alla trama, è allo stesso tempo evidente come, a seguito del picco più alto - quello determinato da una scena ambientata all'interno di uno stadio, nella quale viene a crearsi una spaccatura tra fazioni insanabile - la regia di Wyatt cominci a franare lentamente, faticando a tenere in piedi l’attenzione e ostentando, infine, anche i problemi di una scrittura, forse, meno ferrea e acuta di quello che il suo autore aveva immaginato.

Perché, si, possiamo apprezzare le intenzioni – riuscite o meno - di provare a rinnovare lo scontro tra alieni e esseri umani; è interessantissima la critica sociale – poco esaminata – di un pianeta migliorato sotto tutti i punti di vista, non appena tolto dalle nostre mani; esemplare la voglia di allontanarsi il più possibile dai classici film di fantascienza industriali, ma se poi ci si dimentica di irrobustire a dovere il colpo di scena risolutivo - quello capace di dare un senso a tutta la corsa - il rischio, dopo, è quello che ogni cosa finisca per spegnersi istantaneamente, con una soffiata.

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