Un regista in crisi, depresso e consumato dagli acciacchi dell’età che non riesce più a esprimersi con l’unico mezzo che sapeva utilizzare per farlo: il cinema. Si chiama Salvador Mallo, è interpretato magistralmente da Antonio Banderas, ma non ci vuole una scienza per rendersi conto che, in verità, è Pedro Almodóvar: che in “Dolor Y Gloria” ha trovato il coraggio di spogliarsi, per parlarci del sé stesso più instabile e recente.
Quanta realtà ci sia e di quanta finzione si sia servito, importa poco. Quello che emerge, e quello che colpisce maggiormente nell’ultima pellicola del regista spagnolo, è la voglia di reagire a un (lungo) periodo difficilissimo della sua vita, nel quale ogni tentativo di salvataggio – logico o illogico che sia stato – non ha retto il confronto con l’unica medicina idonea a rimetterlo in sesto. Una medicina che Almodóvar, rispetto al suo alter-ego, non aveva mai smesso di prendere, di praticare: perché se il Mallo di Banderas di scrivere e di girare non ha più voglia - vista la sua enorme sofferenza fisica - e si limita a (non) presentare i restauri dei suoi successi e a buttare giù stralci emotivi, lui di film negli ultimi anni ne ha fatti eccome, ma si trattava di placebo, o quantomeno di un farmaco innocuo per noi pubblico e ancor più nocivo per chi era cosciente che, se voleva migliorare, aveva certamente bisogno di qualcos’altro. E allora deve esserci stato un punto di rottura, una presa di posizione dettata, magari, dalla sincerità: quella che come vediamo in “Dolor Y Gloria” porta il protagonista a non difendere più le sue ferite, bensì a rivelarle. Un processo liberatorio e di apertura che subconsciamente spalanca le porte anche a un’(auto)analisi volta a viaggiare a ritroso fino all’infanzia, a momenti familiari – felici e non - e a episodi cruciali dove vocazioni, pulsioni e stimoli cominciavano ad assumere forma.
Quanta realtà ci sia e di quanta finzione si sia servito, importa poco. Quello che emerge, e quello che colpisce maggiormente nell’ultima pellicola del regista spagnolo, è la voglia di reagire a un (lungo) periodo difficilissimo della sua vita, nel quale ogni tentativo di salvataggio – logico o illogico che sia stato – non ha retto il confronto con l’unica medicina idonea a rimetterlo in sesto. Una medicina che Almodóvar, rispetto al suo alter-ego, non aveva mai smesso di prendere, di praticare: perché se il Mallo di Banderas di scrivere e di girare non ha più voglia - vista la sua enorme sofferenza fisica - e si limita a (non) presentare i restauri dei suoi successi e a buttare giù stralci emotivi, lui di film negli ultimi anni ne ha fatti eccome, ma si trattava di placebo, o quantomeno di un farmaco innocuo per noi pubblico e ancor più nocivo per chi era cosciente che, se voleva migliorare, aveva certamente bisogno di qualcos’altro. E allora deve esserci stato un punto di rottura, una presa di posizione dettata, magari, dalla sincerità: quella che come vediamo in “Dolor Y Gloria” porta il protagonista a non difendere più le sue ferite, bensì a rivelarle. Un processo liberatorio e di apertura che subconsciamente spalanca le porte anche a un’(auto)analisi volta a viaggiare a ritroso fino all’infanzia, a momenti familiari – felici e non - e a episodi cruciali dove vocazioni, pulsioni e stimoli cominciavano ad assumere forma.

Così, pur non essendo oggettivamente l'Almodóvar migliore visto sul grande schermo (ma ci si avvicina parecchio), quello di “Dolor Y Gloria” è, per certi versi, da considerarsi il più importante. A commuoversi, a soffrire e a provare felicità, infatti, questa volta più che al pubblico spetta all’autore, e a percepirlo, oltre noi, è stato anche un Banderas che - a giudicare dalla sua performance - sotto pressione e responsabilità riesce a superarsi e a stupire.
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