C’era da aspettarselo.
D'altronde l’esagerazione ormai è diventata uno sport mondiale, e anche se di pesci che abboccano ce ne sono tanti – troppi, a dire il vero – che l’ultima opera di Xavier Dolan fosse un disastro totale, un film maledetto, addirittura, o qualcosa da cui girare alla larga, sinceramente, mi sembrava una notizia poco credibile. Certo, i continui rinvii dell’uscita, i problemi al montaggio e il taglio integrale del personaggio di Jessica Chastain - arrivato come un fulmine a ciel sereno - preannunciavano imperfezioni, difficoltà, insicurezze che “La Mia Vita Con John F. Donovan”, di fatto, ha davvero e non può nascondere.
Sebbene non siano quelli, alla fine, i suoi reali problemi.
Tutto sommato è una pellicola compiuta, infatti, quella che ha messo così tanto in pena Dolan; una pellicola che lo rappresenta, lo incarna, racchiudendo interamente e in via trasversale quelli che sono i suoi temi più cari e ricorrenti. Un punto di forza che, però, ormai rischia di cominciare a funzionare, nel suo caso, nell'esatto contrario: perché se con “È Solo La Fine Del Mondo” riusciva ancora a cavarsela, in qualche maniera, coprendo le ridondanze dei contenuti con una forma estetica straripante e vincente, stavolta la riproposizione consumata e insistente della medesima storia non riesce a trovare alcun appiglio, rimanendo schiacciata in quella che sembra, a tutti gli effetti, una crisi artistica ufficiale, non indifferente. L'enfant prodige di qualche anno fa, oggi, dà l’impressione di essersi scaricato, di aver esaurito ciò che aveva da dire, di essersi avvitato su sé stesso fino a incastrarsi e a scoprirsi bloccato. In “La Mia Vita Con John F. Donovan” ritroviamo per l’ennesima volta due protagonisti omosessuali - Kit Harington da una parte e Jacob Tremblay dall'altra – in conflitto con le loro madri, introversi nel relazionarsi al prossimo e spesso impulsivi perché alle prese con un'implosività da tenere a bada (che nell'adulto è decisamente più controllata che nel bambino).
Nessun approfondimento, dunque. Nessuna variazione. Nonostante le opportunità per costruire qualcosa di inedito e arrivare ugualmente al punto a Dolan non mancassero affatto. Vedere più da vicino come questa segreta corrispondenza tra un bambino di undici anni e un adulto aiutasse – attraverso gli innumerevoli punti in comune - entrambi a guardarsi dentro e a superare le difficoltà, poteva essere una soluzione, magari: una soluzione con la quale entrare maggiormente dentro le fragilità dei personaggi e rendere più netto (e forte) quel messaggio a cui il film ha intenzione di aggrapparsi e di stringersi. Il traguardo, del resto, è abbastanza noto: la libertà di essere noi stessi, messa al di sopra di qualsiasi cosa. Così come è nota la critica che il regista rivolge a una società – l'ambiente cinema ne fa parte, ma è relativo – in cui l’ipocrisia e la menzogna prosperano, influenzando passivamente il coraggio di determinate scelte e confidenze.
Stretto, forse, in un ruolo che non si è scelto, ma che il (prematuro e largo) successo gli ha donato, allora, Dolan – come il Donovan del suo film – al momento pare temere una libertà che, al contrario, avrebbe il diritto e il dovere di prendersi. Il suo cinema – quello circoscritto, che ha contribuito meritatamente alla sua fama – si sta prosciugando, affannando - tolta la scena a rallenty di Tremblay che corre da Natalie Portman (tra l’altro con una chiusura eccessivamente retorica) e un dialogo in cucina tra Harington e Michael Gambon, non c’è null'altro di memorabile, qui – , supplicando in una svolta capace di fargli riconquistare quella vitalità e quello slancio che per ora, speriamo, sia stato solo messo in ghiaccio.
Trailer:
D'altronde l’esagerazione ormai è diventata uno sport mondiale, e anche se di pesci che abboccano ce ne sono tanti – troppi, a dire il vero – che l’ultima opera di Xavier Dolan fosse un disastro totale, un film maledetto, addirittura, o qualcosa da cui girare alla larga, sinceramente, mi sembrava una notizia poco credibile. Certo, i continui rinvii dell’uscita, i problemi al montaggio e il taglio integrale del personaggio di Jessica Chastain - arrivato come un fulmine a ciel sereno - preannunciavano imperfezioni, difficoltà, insicurezze che “La Mia Vita Con John F. Donovan”, di fatto, ha davvero e non può nascondere.
Sebbene non siano quelli, alla fine, i suoi reali problemi.
Tutto sommato è una pellicola compiuta, infatti, quella che ha messo così tanto in pena Dolan; una pellicola che lo rappresenta, lo incarna, racchiudendo interamente e in via trasversale quelli che sono i suoi temi più cari e ricorrenti. Un punto di forza che, però, ormai rischia di cominciare a funzionare, nel suo caso, nell'esatto contrario: perché se con “È Solo La Fine Del Mondo” riusciva ancora a cavarsela, in qualche maniera, coprendo le ridondanze dei contenuti con una forma estetica straripante e vincente, stavolta la riproposizione consumata e insistente della medesima storia non riesce a trovare alcun appiglio, rimanendo schiacciata in quella che sembra, a tutti gli effetti, una crisi artistica ufficiale, non indifferente. L'enfant prodige di qualche anno fa, oggi, dà l’impressione di essersi scaricato, di aver esaurito ciò che aveva da dire, di essersi avvitato su sé stesso fino a incastrarsi e a scoprirsi bloccato. In “La Mia Vita Con John F. Donovan” ritroviamo per l’ennesima volta due protagonisti omosessuali - Kit Harington da una parte e Jacob Tremblay dall'altra – in conflitto con le loro madri, introversi nel relazionarsi al prossimo e spesso impulsivi perché alle prese con un'implosività da tenere a bada (che nell'adulto è decisamente più controllata che nel bambino).
Nessun approfondimento, dunque. Nessuna variazione. Nonostante le opportunità per costruire qualcosa di inedito e arrivare ugualmente al punto a Dolan non mancassero affatto. Vedere più da vicino come questa segreta corrispondenza tra un bambino di undici anni e un adulto aiutasse – attraverso gli innumerevoli punti in comune - entrambi a guardarsi dentro e a superare le difficoltà, poteva essere una soluzione, magari: una soluzione con la quale entrare maggiormente dentro le fragilità dei personaggi e rendere più netto (e forte) quel messaggio a cui il film ha intenzione di aggrapparsi e di stringersi. Il traguardo, del resto, è abbastanza noto: la libertà di essere noi stessi, messa al di sopra di qualsiasi cosa. Così come è nota la critica che il regista rivolge a una società – l'ambiente cinema ne fa parte, ma è relativo – in cui l’ipocrisia e la menzogna prosperano, influenzando passivamente il coraggio di determinate scelte e confidenze.
Stretto, forse, in un ruolo che non si è scelto, ma che il (prematuro e largo) successo gli ha donato, allora, Dolan – come il Donovan del suo film – al momento pare temere una libertà che, al contrario, avrebbe il diritto e il dovere di prendersi. Il suo cinema – quello circoscritto, che ha contribuito meritatamente alla sua fama – si sta prosciugando, affannando - tolta la scena a rallenty di Tremblay che corre da Natalie Portman (tra l’altro con una chiusura eccessivamente retorica) e un dialogo in cucina tra Harington e Michael Gambon, non c’è null'altro di memorabile, qui – , supplicando in una svolta capace di fargli riconquistare quella vitalità e quello slancio che per ora, speriamo, sia stato solo messo in ghiaccio.
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