Gemini Man - La Recensione

Gemini Man Ang Lee
Il fascino della tecnologia.
Ci è affogato anche Ang Lee, uno di quelli sulla cui resistenza (e dominio) ci avrebbero puntato in molti. Affogato perché in “Vita Di Pi” e in “Billy Lynn: Un Giorno Da Eroe” la scelta di avvalersi di tale strumento aveva avuto senso e soprattutto (ap)pagava, cosa che smette di succedere, purtroppo, nel disordine e nella banalità di una storia come quella di “Gemini Man”.

Raddoppia Will Smith (con una nemesi ringiovanita di trent’anni), ritorna il 3D e i fotogrammi sono ancora 120 al secondo (come nel precedente film del regista e nonostante i cinema in grado di proiettare questo sistema siano contati).
Ma è ugualmente troppo poco per guadagnare la sufficienza, specie se ci si aggrappa a un canovaccio action talmente classico da risultare prevedibile, insipido e démodé all'interno del quale il più grande cecchino del mondo, appena andato in pensione, viene a scoprire che nel suo ultimo lavoro gli è stata fatta uccidere una persona innocente. Notizia che, una volta ricevuta, trasforma immediatamente lui nel nuovo target da eliminare, ma per farlo - in quanto migliore su piazza - serve assolutamente il talento di un killer che a tutti pare essere la sua copia sputata, ma più giovane. Quali saranno le conseguenze, i risvolti e come andrà a terminare tale conflitto, non c’è nemmeno bisogno di metterlo nero su bianco: dato che, i colpi di scena, non sono proprio il punto di forza di “Gemini Man”. Il problema è che la pellicola non può contare neppure sull'esperienza e l’estro del suo regista, che a quanto pare - e con enorme nostro stupore - si limita – come si usa dire oggi – solo ad accompagnare la narrazione: non salendo mai in cattedra tranne, forse, nella prima sequenza che vede lo Smith cinquantenne e il suo clone più acerbo, fare amicizia a colpi di inseguimenti, pistole e motociclette.

Gemini Man FilmL’impressione, allora, è che l’esperienza visiva e l’apporto digitale siano stati considerati come abbastanza; come il fiore all'occhiello di un prodotto che non aveva bisogno di nient’altro per affermare le sue qualità e imporsi sugli spettatori. Peccato che di esperienze del genere, negli ultimi anni, il cinema ne abbia regalate a valanga, spesso anche più sperimentali e spinte di quanto accada in questo frangente (e nessuna mai davvero convincente). Se, infatti, le tre dimensioni a 120 fotogrammi al secondo danno la sensazione di una fluidità ai limiti del reale, è vero pure che il contraccolpo è quello di uscire un po’ fuori da quello che è l’effetto-cinema abituale. Discorso simile, seppur differente, per quanto riguarda la moda di svecchiare gli attori al computer: che sfocia sempre – Disney/Marvel a parte – in quello spaesamento in cui ti ritrovi a domandarti se la resa è accettabile, oppure al pari di un videogioco di ultima generazione (e il ballottaggio, qui, è vinto indiscutibilmente dalla seconda opzione).

Continua, insomma, quella che da tempo – da queste parti – abbiamo rinominato come la maledizione di Will Smith. L’attore non riesce a smettere di rovinare tutto ciò che incontra, o comunque di selezionare copioni e progetti sbagliati o da rivedere. Speravamo che l’influenza di uno come Ang Lee potesse aiutarlo a uscire fuori da questo tunnel, ma – riprendendo un termine già utilizzato all'inizio – i fatti ci dicono che invece i due hanno finito per affogare insieme.

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