La grande sfida è quella lanciata dalla casa automobilistica Ford alla rivale, Ferrari, nel 1963: quando Henry Ford II si vide rifiutare una proposta d’acquisto da Enzo Ferrari, perché al suo interno era previsto anche gli venisse ceduta la Scuderia di Maranello. Il due di picche del patron modenese scatenò, quindi, le ire della sua nemesi americana, che a quel punto – spinta dall'orgoglio – pretese a tutti i costi dal suo team la progettazione di una macchina da corsa velocissima, in grado di interrompere la striscia positiva di vittorie inanellate dal Cavallino Rampante nella 24 Ore di Le Mans. Un’ambizione a dir poco irraggiungibile, se non, forse, attraverso la visionarietà dell’ex-pilota e ingegnere Carroll Shelby e l’intuito del meccanico-collaudatore Ken Miles.
Eppure non è di questo che parla, in realtà, la pellicola di James Mangold.
Non è l’approccio documentaristico che interessa al regista, come nemmeno l’epicità di un duello su quattro ruote capace di scuotere lo spettatore come oggi, ormai, capita sempre più raramente davanti al televisore. Lui vuole raccontarci chi erano gli uomini che – senza fare spoiler – raccolsero il guanto di quella follia, da dove venivano, come ragionavano e per quale motivo: non dimenticando neppure di menzionare il sistema che li aveva assoldati, i suoi controsensi e le sue rigidità. Perché – e viene detto esplicitamente e più di una volta, in scena – la Ford all'epoca (come tuttora) era, in sostanza, una compagnia che vendeva automobili, che non aveva quindi la cultura delle gare automobilistiche e che se all'improvviso si era scoperta a voler investire in tal senso, era più che altro per una questione di arroganza e di vendetta. Non c’entrava niente, insomma, con lo Shelby di Matt Damon e con il Miles di Christian Bale: due che per quella vita ci avevano vissuto o ambivano a viverci; che la velocità la sentivano scorrere nelle vene; che parlavano la stessa lingua dei motori che costruivano, e vedevano le regole e le strategie del Capitalismo come un pilota, nel punto di maggior spinta di un circuito, può vedere un semaforo rosso sbucato dal nulla.
L’epicità, allora, in “Le Mans ’66: La Grande Sfida” non sta nei ruggiti dei motori, nei sorpassi e nelle curve eseguite ad alta velocità, ma nei ruggiti degli uomini, nei sorpassi e nelle curve che quest’ultimi devono affrontare per coltivare un sogno, una passione, un’idea, o semplicemente per rendere orgogliose di loro le persone che gli sono accanto e non hanno mai smesso di sostenerli. Valori d’altri tempi, verrebbe da dire, così come d’altri tempi appare la regia e lo sguardo di Mangold, il quale non si smentisce – per fortuna – e procede seguendo ancora le orme di quel cinema classico tanto trascurato, quanto trascinante: consapevole di poter contare sull'affidabilità e sul talento di due attori giganteschi che – alla stregua dei personaggi che interpretano (e che caratterizzano) – riescono a fiutare le sfumature emotive di ogni scena, a improvvisare d’istinto e ad aumentare, perciò, il coinvolgimento e il magnetismo complessivo.
E a testimoniarlo siamo noi, le nostre reazioni: quel senso di partecipazione spontaneo con cui decidiamo di accompagnare una battuta, una svolta; quell'entusiasmo a mille che utilizziamo per tifare il nostro pilota preferito durante la corsa; quelle lacrime di commozione che non riusciamo a trattenere nella scena finale, o se preferite quelle due ore e mezza di film che scorrono via come un pit-stop realizzato a tempo di record.
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