Mentre abbandoni la sala, rifletti: pensi a cosa abbia voluto dire Woody Allen con “Un Giorno Di Pioggia A New York”; pensi se abbia voluto dire davvero qualcosa, o se l’unico intento, da parte sua, fosse quello di scrivere l’ennesima commedia per farci divertire – ma senza esagerare – e provare a fregarci tutti – per dirla come la direbbe lui – un’altra volta.
Poi però da questa analisi, fin troppo profonda, in materia ti accorgi di non riuscire a cavare un ragno dal buco, di impantanarti, e allora non ti resta che fare la cosa più logica: tornare in superficie. Provare a ripercorrere la storia di Gatsby in maniera semplice, ripassare le sue tappe, la sua crisi; unire tutti i puntini e accorgerti che, come d’incanto, la soluzione era proprio lì.
Nella semplicità di un racconto che non ha nulla da nascondere, da mascherare; che utilizza un linguaggio diretto, immediato, che forse siamo noi a cercare di complicare ad ogni costo, perché non abituati a ricevere cotanta linearità. Il Gatsby di Timothée Chalamet – che è l’alter-ego di Allen – infatti è un giovane di nobili origini, in forza al college, che vuole sfruttare il viaggio di lavoro a New York della sua ragazza Ashleigh – una Elle Fanning a cui l’aggettivo straordinaria, ormai, non rende giustizia – per visitare con lei la città nella maniera più dolce e romantica possibile. L’organizzazione di lui, tuttavia, deve fare i conti con gli imprevisti dell’intervista assegnata a lei, nonché con le decisioni prese dalla Grande Mela nei loro confronti. Nulla di eclatante, insomma. Nulla di inconsueto, se conosciamo un poco la filmografia alleniana e i meccanismi attraverso i quali è solita dare origine agli intrecci, ai colpi di scena e alle battute. Eppure non è un mero esercizio di stile quello posto alla base di questa pellicola, ingiustamente messa in ghiaccio e alla quale è servito circa un anno di tempo per arrivare, finalmente, in sala e far avvertire il suo (illuminante) spirito.
Poi però da questa analisi, fin troppo profonda, in materia ti accorgi di non riuscire a cavare un ragno dal buco, di impantanarti, e allora non ti resta che fare la cosa più logica: tornare in superficie. Provare a ripercorrere la storia di Gatsby in maniera semplice, ripassare le sue tappe, la sua crisi; unire tutti i puntini e accorgerti che, come d’incanto, la soluzione era proprio lì.
Nella semplicità di un racconto che non ha nulla da nascondere, da mascherare; che utilizza un linguaggio diretto, immediato, che forse siamo noi a cercare di complicare ad ogni costo, perché non abituati a ricevere cotanta linearità. Il Gatsby di Timothée Chalamet – che è l’alter-ego di Allen – infatti è un giovane di nobili origini, in forza al college, che vuole sfruttare il viaggio di lavoro a New York della sua ragazza Ashleigh – una Elle Fanning a cui l’aggettivo straordinaria, ormai, non rende giustizia – per visitare con lei la città nella maniera più dolce e romantica possibile. L’organizzazione di lui, tuttavia, deve fare i conti con gli imprevisti dell’intervista assegnata a lei, nonché con le decisioni prese dalla Grande Mela nei loro confronti. Nulla di eclatante, insomma. Nulla di inconsueto, se conosciamo un poco la filmografia alleniana e i meccanismi attraverso i quali è solita dare origine agli intrecci, ai colpi di scena e alle battute. Eppure non è un mero esercizio di stile quello posto alla base di questa pellicola, ingiustamente messa in ghiaccio e alla quale è servito circa un anno di tempo per arrivare, finalmente, in sala e far avvertire il suo (illuminante) spirito.
Lucidissimo, vitale e volenteroso di non smettere di lottare – e visto come lo stanno trattando è una buona notizia – stavolta Allen prende il suo sapere, la sua intelligenza e la sua furbizia e la mette al servizio di una pellicola dedicata ai romantici, ai sognatori, alle persone che, come lui, non hanno voglia di scendere a compromessi e piegarsi o integrarsi in una società sempre più liquida e più frivola: quella dove scivola Ashleigh e da cui Gatsby viene ripetutamente percosso. Ci dimostra – a modo suo – che se facciamo parte di quella categoria – e se amiamo Woody, sostanzialmente, è così – tradire noi stessi non è l’unica via per sopravvivere; che c’è speranza; che se continuiamo a credere e a non mollare, prima o poi, la felicità busserà anche alla nostra porta.
E non serve a nulla la razionalità, il calcolo, o il giudizio, perché in certi casi è solo questione di magia e di pancia; è in questo modo che nascono le storie più incredibili, più belle (più durature?), più vere: come Gatsby verrà a sapere dalla madre, in una delle scene più toccanti e sincere del film.
Perciò mentre abbandoni la sala, rifletti.
Pensi a tutto questo e poi pensi pure al modo in cui Vittorio Storaro illuminava il volto della Fanning quando pronunciava la parola scoop, a come contrastava i colori per accentuare l’umore dei protagonisti e, infine, concludi pensando a quanto Woody Allen sia immenso, infinito. Uno che alla sua età sa vederci più chiaro di noi, di tutti; che per quello che afferma potrebbe essere paragonato a un sovversivo e che se hanno provato a censurarlo, probabilmente, è perché aveva trovato la risposta. Qualunque fosse la domanda.
Trailer:
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