Pinocchio - La Recensione

Pinocchio 2019 Poster
Per Matteo Garrone, “Pinocchio”, era come “King Kong” per Peter Jackson.
Una storia che inseguiva sin da quando era bambino (da quando aveva sei anni, dice), da cui è rimasto affascinato profondamente e che, da regista, stava diventando per lui una sorta di ossessione. Voleva realizzare il-suo-Pinocchio infatti Garrone, e non gli importava dei rischi che questo sogno potesse comportare: dalle difficoltà produttive non indifferenti, al rischio della riproposizione di un classico della letteratura abbondantemente sfruttato e quindi ad impatto incerto nei confronti degli spettatori.

Perché il-suo-Pinocchio, sostanzialmente, è lo specchio di quello di Collodi: rispettoso, fedele, popolare. Sforbiciato e smussato magari per questioni di budget, alla fine, e per merito – inatteso – di un Massimo Ceccherini che è Volpe nel film, ma pure accreditato tra gli sceneggiatori, in quanto – e a dirlo e Garrone in persona – influenza determinante nel fornire libertà a una stesura che, inizialmente, soffriva un po’ l’imballo delle responsabilità e dei sentimenti. E che sia stato coinvolto emotivamente troppo, Garrone, da questa sua nuova fatica lo si riesce a percepire ancora, nonostante gli alleggerimenti esterni. Per rimanere in tema, la sua creatura potrebbe essere definita come un tantinello legnosa e meno fluida del previsto, dotata di un’umanità non del tutto sviluppata che le impedisce di arrivare a scaldare fino in fondo i nostri cuori. E questo, a sensazione, pare una mancanza scaturita dalla troppa voglia (o necessità) – comprensibile – di voler eccellere e stupire a livello visivo; di voler riuscire a ricreare quell'atmosfera magica, da fiaba, capace di farci accomodare su quelle atmosfere dolci, ironiche e spontanee che erano tipiche del romanzo.
La confezione prima di tutto, insomma. E nello specifico prima di un contenuto che, non potendo ormai dare frutti originali, potrebbe – ma è una personale supposizione – aver sofferto di secondaria (o scontata) attenzione: confluita anche nella costruzione tenue di alcuni momenti (e scene) cardine.

Pinocchio 2019Siamo dalle parti del Garrone versione “Il Racconto Dei Racconti”, con la differenza sostanziale che “Pinocchio” riesce a risultare una pellicola assai meno slegata e ostica (ma pure meno robusta), se assorbita nella sua essenza complessiva. Sarà per via di un’asciuttezza narrativa che – seppur ostentata, a volte, in maniera eccessivamente sbrigativa – ha la destrezza di sapersi muovere con un’agilità tale da non permettere né divagazioni, né dispersioni. Per non parlare di un comparto tecnico – composto da effetti speciali, trucco, costumi e scenografie – al quale era palesemente assegnato il delicato compito di fungere da albero maestro, da base solida, e che nella sua (enorme e pregevole) artigianalità e nelle sue creazioni riesce a eccellere, brillando a tal punto da farci mettere in discussione il fatto che ciò che abbiamo davanti sia realmente figlio di una produzione nostrana.
Discorso che potrebbe valere altrettanto, ma a svantaggio, per quanto riguarda il Garrone-autore. Un po’ oscurato – per non dire schiacciato – qui, probabilmente dalla tensione e dalla foga, da non riuscire a emergere e a far sentire la sua presenza: che, se c’è, è in rarissimi casi e pochi rispetto a ciò che serviva per infondere un ascendente.

Al netto delle imperfezioni e degli imprevisti, tuttavia, resta la consapevolezza che questo “Pinocchio” possa assolvere opportunamente alla funzione di riferimento cinematografico maggioritario per tutti quei genitori (o derivati) intenzionati a condividere coi propri piccoli il testo di Collodi, bypassando la tappa delle pagine e delle illustrazioni.
Il che, a prescindere da quali fossero le sue mire primordiali e recondite, va giudicato assolutamente come una gran conquista.

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