Per Matteo Garrone, “Pinocchio”, era come “King Kong” per Peter Jackson.
Una storia che inseguiva sin da quando era bambino (da quando aveva sei anni, dice), da cui è rimasto affascinato profondamente e che, da regista, stava diventando per lui una sorta di ossessione. Voleva realizzare il-suo-Pinocchio infatti Garrone, e non gli importava dei rischi che questo sogno potesse comportare: dalle difficoltà produttive non indifferenti, al rischio della riproposizione di un classico della letteratura abbondantemente sfruttato e quindi ad impatto incerto nei confronti degli spettatori.
Perché il-suo-Pinocchio, sostanzialmente, è lo specchio di quello di Collodi: rispettoso, fedele, popolare. Sforbiciato e smussato magari per questioni di budget, alla fine, e per merito – inatteso – di un Massimo Ceccherini che è Volpe nel film, ma pure accreditato tra gli sceneggiatori, in quanto – e a dirlo e Garrone in persona – influenza determinante nel fornire libertà a una stesura che, inizialmente, soffriva un po’ l’imballo delle responsabilità e dei sentimenti. E che sia stato coinvolto emotivamente troppo, Garrone, da questa sua nuova fatica lo si riesce a percepire ancora, nonostante gli alleggerimenti esterni. Per rimanere in tema, la sua creatura potrebbe essere definita come un tantinello legnosa e meno fluida del previsto, dotata di un’umanità non del tutto sviluppata che le impedisce di arrivare a scaldare fino in fondo i nostri cuori. E questo, a sensazione, pare una mancanza scaturita dalla troppa voglia (o necessità) – comprensibile – di voler eccellere e stupire a livello visivo; di voler riuscire a ricreare quell'atmosfera magica, da fiaba, capace di farci accomodare su quelle atmosfere dolci, ironiche e spontanee che erano tipiche del romanzo.
La confezione prima di tutto, insomma. E nello specifico prima di un contenuto che, non potendo ormai dare frutti originali, potrebbe – ma è una personale supposizione – aver sofferto di secondaria (o scontata) attenzione: confluita anche nella costruzione tenue di alcuni momenti (e scene) cardine.
Siamo dalle parti del Garrone versione “Il Racconto Dei Racconti”, con la differenza sostanziale che “Pinocchio” riesce a risultare una pellicola assai meno slegata e ostica (ma pure meno robusta), se assorbita nella sua essenza complessiva. Sarà per via di un’asciuttezza narrativa che – seppur ostentata, a volte, in maniera eccessivamente sbrigativa – ha la destrezza di sapersi muovere con un’agilità tale da non permettere né divagazioni, né dispersioni. Per non parlare di un comparto tecnico – composto da effetti speciali, trucco, costumi e scenografie – al quale era palesemente assegnato il delicato compito di fungere da albero maestro, da base solida, e che nella sua (enorme e pregevole) artigianalità e nelle sue creazioni riesce a eccellere, brillando a tal punto da farci mettere in discussione il fatto che ciò che abbiamo davanti sia realmente figlio di una produzione nostrana.
Discorso che potrebbe valere altrettanto, ma a svantaggio, per quanto riguarda il Garrone-autore. Un po’ oscurato – per non dire schiacciato – qui, probabilmente dalla tensione e dalla foga, da non riuscire a emergere e a far sentire la sua presenza: che, se c’è, è in rarissimi casi e pochi rispetto a ciò che serviva per infondere un ascendente.
Al netto delle imperfezioni e degli imprevisti, tuttavia, resta la consapevolezza che questo “Pinocchio” possa assolvere opportunamente alla funzione di riferimento cinematografico maggioritario per tutti quei genitori (o derivati) intenzionati a condividere coi propri piccoli il testo di Collodi, bypassando la tappa delle pagine e delle illustrazioni.
Il che, a prescindere da quali fossero le sue mire primordiali e recondite, va giudicato assolutamente come una gran conquista.
Trailer:
Una storia che inseguiva sin da quando era bambino (da quando aveva sei anni, dice), da cui è rimasto affascinato profondamente e che, da regista, stava diventando per lui una sorta di ossessione. Voleva realizzare il-suo-Pinocchio infatti Garrone, e non gli importava dei rischi che questo sogno potesse comportare: dalle difficoltà produttive non indifferenti, al rischio della riproposizione di un classico della letteratura abbondantemente sfruttato e quindi ad impatto incerto nei confronti degli spettatori.
Perché il-suo-Pinocchio, sostanzialmente, è lo specchio di quello di Collodi: rispettoso, fedele, popolare. Sforbiciato e smussato magari per questioni di budget, alla fine, e per merito – inatteso – di un Massimo Ceccherini che è Volpe nel film, ma pure accreditato tra gli sceneggiatori, in quanto – e a dirlo e Garrone in persona – influenza determinante nel fornire libertà a una stesura che, inizialmente, soffriva un po’ l’imballo delle responsabilità e dei sentimenti. E che sia stato coinvolto emotivamente troppo, Garrone, da questa sua nuova fatica lo si riesce a percepire ancora, nonostante gli alleggerimenti esterni. Per rimanere in tema, la sua creatura potrebbe essere definita come un tantinello legnosa e meno fluida del previsto, dotata di un’umanità non del tutto sviluppata che le impedisce di arrivare a scaldare fino in fondo i nostri cuori. E questo, a sensazione, pare una mancanza scaturita dalla troppa voglia (o necessità) – comprensibile – di voler eccellere e stupire a livello visivo; di voler riuscire a ricreare quell'atmosfera magica, da fiaba, capace di farci accomodare su quelle atmosfere dolci, ironiche e spontanee che erano tipiche del romanzo.
La confezione prima di tutto, insomma. E nello specifico prima di un contenuto che, non potendo ormai dare frutti originali, potrebbe – ma è una personale supposizione – aver sofferto di secondaria (o scontata) attenzione: confluita anche nella costruzione tenue di alcuni momenti (e scene) cardine.

Discorso che potrebbe valere altrettanto, ma a svantaggio, per quanto riguarda il Garrone-autore. Un po’ oscurato – per non dire schiacciato – qui, probabilmente dalla tensione e dalla foga, da non riuscire a emergere e a far sentire la sua presenza: che, se c’è, è in rarissimi casi e pochi rispetto a ciò che serviva per infondere un ascendente.
Al netto delle imperfezioni e degli imprevisti, tuttavia, resta la consapevolezza che questo “Pinocchio” possa assolvere opportunamente alla funzione di riferimento cinematografico maggioritario per tutti quei genitori (o derivati) intenzionati a condividere coi propri piccoli il testo di Collodi, bypassando la tappa delle pagine e delle illustrazioni.
Il che, a prescindere da quali fossero le sue mire primordiali e recondite, va giudicato assolutamente come una gran conquista.
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