L’umorismo di Taika Waititi dopo aver creato scompiglio in casa Marvel – il suo “Thor: Ragnarok" ha spaccato pubblico e critica – prende spunto dal miglior cinema che ha raccontato l’olocausto e decide di fondersi con quello che sarebbe potuto essere “Moonrise Kingdom: Una Fuga D'Amore” se contestualizzato in tempi peggiori. Certo, la sensibilità e lo spirito che contraddistinguono il regista (e sceneggiatore) sono abbondantemente più grezzi e assai meno sottili di quelli di Wes Anderson, ma non per questo meno efficaci all'interno di una storia che mira a ridicolizzare il razzismo e a mettere in evidenza il bisogno dell’essere umano di fuggire dalla solitudine e far parte a tutti i costi di una comunità. Qualunque essa sia (vedi il documentario sui Terrapiattisti presente su Netflix). Così, con una madre dolcissima e amorevole – ma impegnata segretamente nella resistenza – ed un padre forse in guerra, o forse fuggito il più lontano possibile per salvarsi la pelle, al piccolo Jojo non resta che adeguarsi e cedere al fascino dell’unico gruppo solido e imponente che i suoi occhi riescono a intercettare; un gruppo che impiega un nanosecondo per scrutarlo e mettere a nudo la sua insicurezza – affibbiandogli il soprannome di coniglio – ma al quale tuttavia non può (ancora) permettersi il lusso di voltare le spalle: sebbene il suo cuore abbia cominciato a battere per una ragazzina ebrea, scoperta a vivere nelle pareti di casa sua.
C’è del potenziale, allora, ma ci sono anche degli elementi che sembrano fare di “Jojo Rabbit” una pellicola fuori tempo massimo: e sono tutti quelli che si soffermano a dipingere i nazisti come degli stupidi, ignoranti, incapaci di ragionare con la loro testa e di distinguere la realtà dalla finzione. Un espediente che funziona decisamente meglio sulle prime, quando c’è da impartire il tipo di tono che Waititi – che si ritaglia per sé il ruolo di Hitler – ha intenzione di utilizzare, ma che comincia a farsi un tantino ridondante quando – a carte svelate – va togliere lo spazio a quell'approfondimento umano e commuovente che sarebbe stato perfetto per alzare il livello generale, ma che, purtroppo, resta in superficie. Con un attore azzeccatissimo (e promettente) come Roman Griffin Davis – difficile pensare a una scelta di casting migliore – infatti, ci si poteva concentrare maggiormente sulle complessità e sul significato di crescere velocemente, abbandonare la propria infanzia, o comunque non essere in grado di poterla vivere in condizioni pratiche e tradizionali. Materia universale e di grande attualità – a più livelli – che avrebbe trovato terreno fertile pure nel personaggio affidato alla bravissima Thomasin McKenzie, per la quale, sicuramente, i rimpianti (intesi come opportunità sfruttate) mantengono un costo assolutamente più contenuto.
Perché per quanto possa essere più divertente e più facile ironizzare su Hitler, la sua morale e le sue politiche – e possa far sempre piacere far passare quel messaggio di unione e di allontanamento verso qualunque forma di odio e di rabbia – a volte è importante anche non perdere di vista le risorse che un copione – che, ricordiamolo, è liberamente tratto dal romanzo Il Cielo In Gabbia di Christine Leunens – mette a disposizione per andare a emozionare e – nelle nostre possibilità – provare a fare la differenza, dare una mano.
Va bene la leggerezza, insomma, ma come ogni cosa, senza esagerare.
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