Diamanti Grezzi - La Recensione

Diamanti Grezzi Netflix
Howard Ratner è uno di quei uomini che – come si dice, in questi casi – non appena si muovono pestano una merda.
Uno scommettitore cronico, pieno di debiti, che continua a sognare la svolta trafficando diamanti e oggetti di valore che prende in prestito e non, dalla gioielleria che gestisce. Una gioielleria frequentata anche da persone di spicco, perché ad Howard non mancano gli agganci e perché si è appena fatto spedire dall'Etiopia un preziosissimo – a quanto pare – opale che dovrebbe vendere all'asta per sistemare i suoi casini, ma che per vantarsi mostra entusiasta al suo idolo Kevin Garnett – il giocatore dei Boston Celtic – il quale lo prende in prestito, convinto possa diventare suo portafortuna in campo.

Un completo disastro, quindi.
Incapace di mantenere l’ordine persino in famiglia, dove è in rotta con la moglie a causa di un’amante che lavora per lui e che mantiene in un secondo appartamento, e dove ha spezzato la corda tesa da suo cognato, il quale gli ha appena lanciato contro i suoi scagnozzi per farsi ridare indietro – con le cattive – i centomila dollari che gli spettano. C’è da capirlo, allora, se Howard tende ad andare sempre di corsa, a non fermarsi mai, a parlare di continuo – che sia al telefono o faccia a faccia – per giustificarsi, organizzare, convincere ed escogitare qualunque cosa possa fargli guadagnare tempo o denaro. Lui lo sa perfettamente di essere un perdente, ma come ogni perdente che si rispetti non ha la minima intenzione di mollare, di arrendersi. Sfida costantemente la sorte, e lo fa su più tavoli. E la sensazione – la nostra – è che in ogni momento questa possa fargliela pagare più di quanto non faccia o abbia già fatto. Per tutti questi motivi – e per altri, ancora – “Diamanti Grezzi” – che è la traduzione orrida dell’originale “Uncut Gems” – non si concede mai un momento di relax, di respiro, tirando dritto a cento all'ora dal suo fotogramma iniziale a quello finale.

Diamanti Grezzi SafdieAl volante un Adam Sandler versione ebreo newyorchese al quale si vorrebbe riempire la faccia di schiaffi; si vorrebbe sgridare, nonostante sotto sotto si faccia il tifo per lui, affinché le sue mosse e le sue ripetute e irrazionali azioni lo portino a raggiungere quella felicità e quella pace di cui – forse – è alla ricerca. Reazioni che evidenziano i tratti di un’interpretazione incisiva, raffinata, attraverso la quale il suo Howard riesce con una manciata di inquadrature a farsi quasi reale, vivente: non più personaggio, ma persona. Un’intuizione decisamente vincente da parte dei fratelli Safdie, a cui va il merito di aver saputo riscattare il precedente esercizio di stile di “Good Time” con una pellicola che stavolta ha ben chiare le sue direzioni; e dove regia, fotografia, ma anche e in gran parte sonoro, vanno a svolgere un lavoro fondamentale, creando quell'atmosfera e quello stato ansiogeno – e spesso nervoso – che accompagna noi e il protagonista per tutte le due ore e un quarto di durata.

Una maratona percorsa sul filo del rasoio verso la salvezza, la soddisfazione, verso la vita.
Parole che ci riguardano tutti da vicino e tramite le quali scegliamo di filtrare il comportamento e i valori (sbagliati) di Howard restando al suo fianco a prescindere, e incrociando le dita per tutta l’ultima parte del film.

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