Quando appare Tom Hanks con quell'aria accomodante, pacata, che si rivolge a noi guardando dritto in camera, identificandoci come fossimo dei bambini, il pensiero (mio, almeno) va automaticamente a una persona: Giovanni Muciaccia. Sarà il maglioncino rosso, sarà quel buonismo strabordante e infantile – qui alimentato da alcuni pezzi canori – ai limiti della credibilità: fatto sta che, come riferimento, quello del conduttore di Art Attack, resta il più plausibile per inquadrare a grandi linee una figura a noi così estranea come quella di Fred Rogers.
Un presentatore educativo, affidabile, poliedrico, a suo agio e comodo nell'assumersi la responsabilità di – e sono parole sue – aiutare i più piccoli a gestire positivamente le loro emozioni. Un fardello non poco indifferente, che l’uomo sembra portare con sé anche al di là della macchina da presa, al di là dello show. Ad accorgersene è Lloyd, il giornalista incaricato di scrivere un pezzo di 400 parole su di lui, con il vizietto di “smascherare”, o comunque gettare fango, su chiunque accetti di sottoporsi alle sue domande (tant’è che nessuno vuole più farsi intervistare da lui). E se ne accorge quando prova in tutti i modi a fargli cadere quella che, secondo il suo punto di vista, è una maschera; quando lo scruta da lontano, lo studia, cercando ossessivamente una falla, ma finendo puntuale col passare da carnefice a vittima. Si, perché Fred nel suo essere tanto accogliente e formalmente puro – cosa che spesso fa rima con inquietante – riesce a stuzzicare e – in più di un’occasione – a mettersi in contatto con la parte bambina di Lloyd; con un passato che ancora lo tormenta, lo condiziona e che gli impedisce di vivere serenamente la sua vita di uomo, di marito e di padre.
Un presentatore educativo, affidabile, poliedrico, a suo agio e comodo nell'assumersi la responsabilità di – e sono parole sue – aiutare i più piccoli a gestire positivamente le loro emozioni. Un fardello non poco indifferente, che l’uomo sembra portare con sé anche al di là della macchina da presa, al di là dello show. Ad accorgersene è Lloyd, il giornalista incaricato di scrivere un pezzo di 400 parole su di lui, con il vizietto di “smascherare”, o comunque gettare fango, su chiunque accetti di sottoporsi alle sue domande (tant’è che nessuno vuole più farsi intervistare da lui). E se ne accorge quando prova in tutti i modi a fargli cadere quella che, secondo il suo punto di vista, è una maschera; quando lo scruta da lontano, lo studia, cercando ossessivamente una falla, ma finendo puntuale col passare da carnefice a vittima. Si, perché Fred nel suo essere tanto accogliente e formalmente puro – cosa che spesso fa rima con inquietante – riesce a stuzzicare e – in più di un’occasione – a mettersi in contatto con la parte bambina di Lloyd; con un passato che ancora lo tormenta, lo condiziona e che gli impedisce di vivere serenamente la sua vita di uomo, di marito e di padre.
Oggettivamente è una storia semplice, allora, quella raccontata da “Un Amico Straordinario”. Una storia riassumibile, volendo, con una manciata di parole: un uomo in crisi, carico di rabbia repressa, ne incontra un altro che lo aiuta a capire meglio (e a lavorare su) determinati aspetti del suo carattere e della sua vita. Eppure si viene travolti da qualcosa di strano durante la visione, da una presenza sinistra, a tratti disturbante: sono le ombre – prodotte da pause, inquadrature e suoni – utilizzate per mettere in discussione l’onestà e la veridicità del Rogers di Hanks, che molto spesso risulta talmente angosciante, da scavalcare persino il conflitto principale che vede Lloyd provare a ricucire il rapporto logoro che ha con suo padre. Sono le ripercussioni di una bontà che, in quantità estreme come questa, ci sembra automaticamente impossibile, simulata, aliena. Saranno i tempi che corrono, forse, o sarà che Fred Rogers aveva trovato una consapevolezza e un equilibrio – per la maggior parte di noi lontanissimi – che gli permettevano di sfogare le sue brutte giornate e i suoi cattivi pensieri, gestendoli emozionalmente in maniera efficace (positiva, appunto), ma evitando che interferissero coi suoi rapporti umani.
Un atteggiamento ai limiti della robotica, per certi versi, che rischia di rimanere una chimera, a prescindere dalle sue fattibilità. Ma un atteggiamento, anche, che consente alla regista Marielle Heller di giocare quanto basta con la narrazione e con il cinema, per portare a casa una pellicola – che, ricordiamolo, è tratta da una storia vera – trascinante, persuasiva e più complessa della sua (apparente) semplicità.
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