“Io sono una leonessa!”, ci confessa in apertura, ed è una frase che dobbiamo prendere alla lettera e stamparci bene in
testa, perché influenzerà gran parte delle scelte che verranno in seguito. Non mente, non esagera, il
termine che utilizza per definirsi, anzi, è probabilmente quello più adatto e preciso per giustificare la sua
indole da combattente e la faccia tosta con la quale – sfruttando il sistema giudiziario americano e un paio di agganci
nelle case di cura – truffa dei poveri anziani – figli compresi – per appropriarsi dei loro beni e per fare la
bella vita.
Perché è in questo preciso istante – e nei tanti successivi – che Marla dimostra a tutti noi spettatori che
faceva sul serio. Che è davvero una leonessa e, in quanto tale, non basta un leone per costringerla ad
arretrare, a tornare al suo posto. No, lei è affamata, è avida di vittorie, per cui non gli interessa se qualcuno
sta cercando di metterla in soggezione, se gli viene consigliato di salvaguardare la sua incolumità e quella di
chi gli sta intorno. Lei non si intimorisce, piuttosto vede e poi rilancia, ingaggiando una sfida all’ultimo
sangue che disputa a viso aperto e che trasforma in un tesissimo testa a testa. Del resto - nel caso in cui non fosse ancora
chiaro - quello diretto da J. Blakeson è un film in cui non ci sono buoni, in cui si fa il tifo per un cattivo solo
perché, sostanzialmente, il male che ha commesso non l’ha commesso davanti ai nostri occhi: a dispetto
del suo avversario che invece ci ha fatto incazzare e infuriare oltremodo. Lo afferriamo dalle parole di stima di
un avvocato - scagnozzo del secondo predatore - che dice a Marla di apprezzare il suo stile, di procedere nell'applicarlo, ma di focalizzarsi su vittime diverse dall’ultima
selezionata.
Un essere spregevole, cinico, con il quale neppure gli occhi intrisi di lacrime di un povero figlio riuscirebbero
a trattare per scendere a compromessi. Specializzato nel simulare emozioni, preparare copioni, insomma,
nel sapersi muovere perfettamente all’interno di una giungla che la vede sicuramente predatrice. Giungla
che però tende spesso a sorprendere, a ingannare e magari a sottovalutare anche le risorse di alcuni
animali apparentemente deboli, ma fondamentalmente pericolosi o letali. Ed è quello che accade a Marla
quando tenta di dare la svolta decisiva alla sua attività, accettando di spennare un’anziana signora molto
ricca e molto sola, ma dal passato – e dai segreti – così misterioso da portarsi appresso praticamente un
uragano di problemi. Questo uragano – senza stare a spoilerare troppo – a prima vista sembra voler essere
per lei una sorta di contrappasso: la punizione equivalente per tutto il male provocato e inflitto al prossimo.
Ed è liberatorio vederla sotto attacco, assistere alle intimidazioni e alle minacce che finalmente un altro
animale della sua stessa specie si prende il lusso di potergli fare. Ma la realtà è che siamo solo all’inizio. E
che la piega di “I Care A Lot” – per quanto sarebbe stata comunque soddisfacente – non sarà affatto quella
che una parte del nostro cervello ha cominciato a immaginarsi.
In definitiva, non importa se è giusto o sbagliato, ma se sei preda o predatore; vincente o perdente.
In fondo, “I Care A Lot” è questo: una rilettura, o meglio, un ammodernamento di quello che il sogno
americano rappresenta ai nostri giorni. Con tanto di finale, tutt’altro che scontato, che inquadra alla
perfezione sia l’assenza di morale e di giustizia, sia le conseguenze a cui – teoricamente – siamo destinati.
E per dirla alla romana: “Pija sti spicci!”.
Trailer:
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