A sei anni da “Il Caso Spotlight” – e con la parentesi streaming di “Timmy Frana: Il Detective Che Risolve
Ogni Grana”: che, guarda un po’, viaggia più leggero, ma sulla medesima onda – Tom McCarthy continua ad
occuparsi di indagini tortuose, impervie, questa volta portate avanti non da giornalisti d’inchiesta
professionisti, ma da un padre ferito (quasi distrutto) deciso a seguire fino in fondo una voce di corridoio
che – se confermata – potrebbe immediatamente scagionare la propria figlia, attestandone l’innocenza.
Una missione che si ritrova a dover compiere da solo e con scarse risorse, rese ancor più striminzite da una
lingua che non parla, una terra che non conosce e – cosa più importante – una cultura distante anni luce da
quella americana/repubblicana/trumpiana che lo contraddistingue (ma non per colpa sua). Un dettaglio
impercettibile, ma che fa (e che farà) tutta la differenza del mondo all’interno di un thriller, per lo più
ordinario, che assume spessore – e parecchio – non appena inizia a scavare e a mettere in risalto l’umanità
e le fragilità dei suoi personaggi: che posti davanti a incastri perfetti e (teoricamente) salvifici, devono
comunque vedersela coi loro istinti, con la loro indole autodistruttiva, famosissima per incasinare le
situazioni.
E la brutalità a cui si riferisce, probabilmente, risiede nella maniera che a volte la vita ha di beffarti, di
prenderti in giro e quindi stenderti. Una serie di (sfortunati) eventi, uno dietro l’altro, che magari vengono
scatenati da noi; da una nostra mossa azzardata o imprecisa, sulla quale all’improvviso perdiamo il
controllo e le attenzioni, riscoprendoci vittime a giochi fatti. E la potenza, la forza de “La Ragazza Di
Stillwater” sta esattamente in questo suo tendere costantemente all’implosione, nello stendere quel velo
di malinconia trasversale, capace di non rassicurare neppure quando le cose sembrano andare per il meglio: come se le storie delle vite che racconta siano ormai intaccate da una sorta di lato oscuro destinato
a tornare e aggredire.
E McCarthy è bravissimo a trovare la giusta distanza; ad accompagnare il tutto aggrappandosi
nuovamente a quello stile di cinema americano classico, disinteressato ai virtuosismi, perché
concentrato a mantenere stabili asciuttezza e intensità.
Così facendo, allora, diventa impossibile non empatizzare e non comprendere cosa si nasconda dietro alle ultime
parole pronunciate da Matt Damon alla figlia, nella scena conclusiva. Quando le confessa, impassibile, di
vedere un mondo totalmente diverso da quello che ricordava. E il mondo a cui si riferisce è un mondo che va oltre il bianco e il nero, perciò più complesso, più duro e figlio di
altri occhi e tanti rimpianti. Da accettare e basta, insomma, visto che come diceva qualcuno: life is brutal.
Trailer:
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