Ha usato queste parole, Paolo Sorrentino, per motivare cosa lo avesse portato a realizzare “È Stata La
Mano Di Dio”. La sua opera – e ormai dovrebbe essere fin troppo chiaro – più personale, più intima, che
scava nel suo passato fino a tornare all’adolescenza, raccontandoci chi era prima di diventare (e di capire di
voler diventare) chi è oggi.
“La realtà non mi piace più. La realtà è scadente!”.
È lo sfogo disperato di Fabio, il protagonista che incarna lui da liceale: un ragazzo introverso, spensierato, con la testa
tra le nuvole (o tra le cuffie del suo walkman) e attaccatissimo a una famiglia che purtroppo – senza
nessuna colpa – lo abbandonerà troppo presto. Una famiglia della quale Sorrentino prima di raccontare la
tragedia – o, meglio ancora, prima di arrivare a quel punto – sente la necessità di ripescare i ricordi, di
ricostruirli, a volte anche servendosi della sua fervida immaginazione, così da renderla più calorosa e
affabile di quanto già non fosse. E quindi ci ritroviamo in una Napoli di metà anni ’80, dove l’atmosfera
estiva è canalizzata sul possibile trasferimento in città di Diego Armando Maradona: che per alcuni
rappresenta solo chiacchiere da bar, per altri è praticamente una certezza e per pochissimi – forse solo per
qualcuno – una questione di vita o di morte. Per Fabio è semplicemente un sogno. Il sogno che non
baratterebbe neppure per una notte di sesso con l’altro suo sogno, quello erotico di Zia Patrizia: sorella-
pazza della madre che non ha problemi a mostrarsi in pubblico – e davanti a lui – in tutta la sua carnalità,
solleticandogli imbarazzi, fantasie e ponendolo ogni volta faccia a faccia con il suo (fulmineo) sviluppo. Una
fede sportiva – se così vogliamo chiamarla – che lo proteggerà dalla catastrofe; una coincidenza che farà
rima con miracolo; un corto circuito tra sacro e profano che cambierà per sempre la sua esistenza.
Perché “È Stata La Mano Di Dio” è sì la storia semi-autobiografica di Sorrentino, ma è pure il coming-of-
age di un ragazzo giunto nell’età in cui la vita comincia a esploderti davanti agli occhi, incalzandoti a reagire
e a guardare dritto verso il futuro.
E quando la realtà dei fatti gli si palesa davanti, smontando pezzo dopo pezzo quell’armonia e contentezza
in cui si era (e in cui ci aveva) cullato, Fabio deve accettare il suo destino, ammettere di essere diventato un
uomo adulto e – preso per mano da figure che saranno cruciali in questo passaggio – varcare la soglia che lo
catapulterà sulla sua strada. Una strada che è misteriosa, sconosciuta e spesso pericolosa, se si sbaglia a
svoltare o ad attraversare, ma una strada in cui è fondamentale tenere bene a mente una regola: non
disunirsi. Mai. Come gli ribadisce e gli ripete il regista Antonio Capuano – personaggio splendido: fugace e
incandescente – in una delle scene più potenti e significative della pellicola (emotivamente e visivamente):
ambientata sullo sfondo panoramico di una Napoli meravigliosa in cui spicca uno scintillante mare (di prospettive,
emozioni, pensieri) dentro al quale Fabio – anzi, Fabietto, per l’ultima volta – decide di non tuffarsi, voltandogli le spalle.
Per il momento.
Perché ci si tufferà metaforicamente più tardi, quando inesorabile – consapevole delle nuove responsabilità
– lo vedremo trasformarsi in Paolo: il giovane uomo che con una valigia carica di ansie e determinazione viaggia verso
Roma con la lettera d’amore più grande scritta per la sua città che risuona nelle orecchie, quasi a
infondergli coraggio. Quel Paolo che finalmente ha trovato la forza di tirare fuori (di urlare) un dolore che chissà da
quanto tempo portava dentro e faticava a gestire; che ha deciso di condividere con noi un pezzo di sé
gigantesco in maniera sincera, viscerale e catartica, realizzando probabilmente l’ennesimo grande film della
sua carriera.
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