Una Famiglia Vincente: King Richard - La Recensione

Una Famiglia Vincente: King Richard Poster

Dieci anni gli ci sono voluti a Will Smith per espiare il suo peccato: l’aver rifiutato la parte del ruolo principale nel “Django Unchained” di Quentin Tarantino.
Nel 2012 la giustificazione sembrava essere l’impegno preso per “Men In Black 3” (a cui non voleva non poteva né rinunciare, né spostare), anche se poi, negli anni a venire, al ripresentarsi della domanda, le risposte cominciarono a cambiare (migliorando?): arrivando a una specie di versione ufficiale nella quale ad essere decisiva era stata la tematica – la schiavitù – e un’esplicita richiesta della figlia, preoccupata per le potenziali conseguenze psicologiche del padre.
Vero, falso: poco importa. Fatto sta che dopo quell'occasione (persa), Smith ha cominciato a non imbroccare più nemmeno un progetto, eclissandosi, neanche fosse vittima di un effetto domino inarrestabile. Castigo che sembra però aver trovato fine (o una compensazione), grazie al ruolo di Richard Williams che l’attore interpreta in “Una Famiglia Vincente: King Richard”, e che per certi versi, con Django, ha moltissimi punti in comune.

Testardo, invadente, arrogante: non il tipo a cui piace farsi mettere i piedi in testa. Definito da un passato che lo ha visto vittima di discriminazione, violenze e figlio di un padre che correva via quando lo massacravano di botte per aver sfiorato, per sbaglio, la mano di un bianco. Una ferita ancora aperta, insanabile, che può cicatrizzarsi solamente se il suo piano andrà a buon fine. E quindi se Venus e Serena – due delle sue cinque figlie – riusciranno a raggiungere la vetta del tennis femminile. Un disegno che viene da lontano; che Richard ha messo in piedi ancora prima di concepirle e che porta avanti (avvalendosi della complicità della moglie) con una rigidità tale da sembrare la sua motivazione di vita: giorno dopo giorno, mese dopo mese e anno dopo anno. Un personaggio tanto insopportabile e pesante, quanto comprensibile e affascinante. Per noi, come per la sua famiglia: nella quale comanda – o, comunque, crede di comandare – detta le regole e pretende massimo impegno negli studi e il massimo rispetto verso il prossimo.
Un Re, insomma: come viene evidenziato nel titolo originale della pellicola diretta da Reinaldo Marcus Green (e sceneggiata da Zach Baylin) e tenuto in secondo piano, nella nostra traduzione leggermente più commerciale.

Una Famiglia Vincente: King Richard Smith

Pure un Django moderno, però, che non combatte in solitaria – consapevole di essere nel mondo reale e non nell'universo tarantiniano – ma comunque non si tira mai indietro, al costo di rimetterci la pelle: se la causa è giusta, conta o, in qualche modo, è obbligata. E a proposito di Tarantino, in “Una Famiglia Vincente: King Richard” c’è pure una scena che, probabilmente, non dispiacerà al regista: dove Smith prende di petto quelli che lui chiama membri del Ku Klux Klan senza maschera, rispondendogli a tono e alzando notevolmente la cresta non appena si rende conto di avere il coltello dalla parte del manico. Del resto, la posta in gioco è piuttosto alta, enorme, a dire il vero: perché il successo delle sue Venus e Serena rappresenterebbe una svolta epocale, un cambiamento storico, visto e considerato che il tennis, all'inizio degli anni ’90, era uno sport giocato prevalentemente da bianchi e inedito agli afroamericani. Un fardello pesantissimo da portare dietro, in grado di poter cambiare il corso degli eventi e fungere da rivincita personale, da un lato, ma con la ripercussione di rappresentare un one shot esclusivo da giocare al momento giusto, dall'altro: un momento giusto che, tuttavia, potrebbe restare relativo in eterno.

Rivoluzione in solitaria – che poi in solitaria non è mai stata davvero – che Richard, nemmeno fosse un personaggio shakesperiano, preso dalla (troppa) responsabilità e dalla (troppa) paura rischia di farsi esplodere inconsapevolmente tra le mani: salvato solo da una famiglia che gli ricorderà di alleggerire il polso e di non poter vincere una battaglia se la strategia è continuare a nascondersi tra le retrovie.
E da qui in poi, la pellicola di Green diventa il classico racconto del sogno americano: curato, lustrato, dolce. Sebbene ormai, col nostro coinvolgimento ai massimi e il cuore conquistato, sia tardissimo per ridimensionare il risultato complessivo e peccare di superbia.
Mentre Will Smith è già partito, per non fare tardi alla cerimonia dei prossimi Oscar.

Trailer:

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