Tim Blake Nelson, è uno di quegli attori che quando lo nomini, dall’altra parte, spesso, ti guardano come se avessi appena pronunciato qualcosa di incomprensibile, come se si aspettassero che a breve debba arrivare una rettifica, un indizio, una spiegazione.
Eppure Tim Blake Nelson è uno di quegli attori che, quando un regista fa un film, pregherebbe sempre per averlo al suo fianco, di poter contare sul suo corpo, sulla sua faccia, sulla sua espressività.
Ne sanno qualcosa i fratelli Coen, sicuramente, e come loro una marea di altri registi – Spielberg compreso – che lo hanno chiamato a interpretare i ruoli più disparati: perché, parliamoci chiaro, Tim Blake Nelson, è uno di quegli attori che dove lo metti sta.
E ci sta pure bene.
Tendenzialmente un caratterista, allora: uno di quelli che senza il bisogno di avere costantemente i riflettori puntati addosso, riesce ad attirare l’attenzione su sé stesso, mettendosi in mostra a intermittenza, innalzando il livello di bravura generale e, con esso, la profondità dell’opera. Ma come ci ha insegnato il recente “La Ballata Di Buster Scruggs”, anche un assoluto mattatore: e se avete dubbi a riguardo, andate a guardarvi su Netflix l’episodio di cui è protagonista. Caratteristiche che lo rendono perfetto per interpretare il personaggio di “Old Henry”: misterioso proprietario di una fattoria che, insieme a suo figlio, si ritrova a proteggere un uomo ferito a morte dalle grinfie di uno sceriffo – o presunto tale – e della sua banda, interessati a finire l'opera e a riscattare un borsellino stracolmo di soldi. Un western girato in maniera classicissima (nonostante segua un percorso che di classico ha quasi niente), elegante, pulito; scritto e diretto dall’esordiente – o poco ci manca – Potsy Ponciroli che, per quanto nella sua vita sembra aver avuto più esperienze da produttore, qui dimostra di saper raccontare una storia e di saperlo fare con il rigore della tecnica, del ritmo e della narrazione. La sua sceneggiatura è essenziale, ristretta, costruita addirittura su uno stereotipo che potrebbe andare a remargli contro, considerando quanto è stato sciupato e abusato: quello di chi cerca di fuggire dal suo passato, ricostruendosi una vita altrove.
Però, passa tutto in secondo piano davanti alla maestria, davanti a un meccanismo a orologeria che non lascia neppure il tempo di mettersi a fare certi ragionamenti.
In “Old Henry” persino le pause, i respiri, sono calcolati; fondamentali alla trama per innalzare quel livello di curiosità e di mistero, che va di pari passo all'adrenalina. Non c’è niente da nascondere. Le carte sono scoperte, a prescindere dai giocatori. Sappiamo chi è il cattivo e chi è il buono. Quello che non sappiamo è chi l’avrà vinta e come. A che prezzo. Dell’Henry di Blake Nelson ci manca un unico tassello, l’identità, e quella è palese che verrà rivelata solamente nel corso dell’ultimo atto: come colpo di scena corposissimo, da far venire i brividi lungo la schiena. Ma non sarà, comunque, quella la fine dei giochi, perché oltre la forma – che è stratosferica – nella pellicola di Ponciroli non manca nemmeno la sostanza. Quella di un America in fase di evoluzione, i cui cambiamenti si ripercuotono sulle scelte di un padre, alle prese con una redenzione personalissima, che passa tutta attraverso la salvezza del proprio figlio.
Va da sé, dunque, che staccare gli occhi e mollare la presa da una pellicola come “Old Henry” è istinto pressoché innaturale, forzato. Ammirare Blake Nelson – e a forza di ripetere questo nome, vedrete che la prossima volta che ve lo nomineranno, farete di sì con la testa – che lentamente esce fuori dal suo guscio e riprende confidenza con le sue origini, rivelando al figlio chi è per davvero e colmando finalmente la sofferenza del loro contrasto, è una bellezza per gli occhi e per il cuore.
L'ultimo tassello con cui cesellare un lavoro da applausi, o perché no, da standing ovation.
L'ultimo tassello con cui cesellare un lavoro da applausi, o perché no, da standing ovation.
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