Flee - La Recensione

Flee Poster Italiano

Per la prima volta nella storia degli Oscar lo stesso film viene nominato nelle categorie miglior film d'animazione, miglior documentario e miglior film internazionale (ex categoria di miglior film straniero).
Un dato che, da solo, potrebbe bastare a identificare che genere di opera sia il “Flee” (co)scritto e diretto dal danese Jonas Poher Rasmussen il quale, per raccontare la storia (vera) del suo amico Amin (che nella realtà non si chiama così), decide di utilizzare diversi stili, creando sostanzialmente un ibrido capace di sbalordire per omogeneità e per veemenza emotiva.

Un esperimento inedito, che lascia spaesati soprattutto quando – inaspettatamente – alle immagini di quello che sembrava essere un normale film d’animazione, cominciano ad alternarsi clip documentaristiche di repertorio, utili a rinforzare la veridicità e la crudezza degli eventi. Perché al centro di “Flee” – che significa fuggi – c’è la storia di un abbandono forzato della propria patria, l’Afghanistan. C’è la fine della spensieratezza di un bambino e – ultimo, ma non per ordine d'importanza – c'è lo scombussolamento di una memoria, costretta a mentire talmente forte e talmente a lungo, da dimenticare poi la verità autentica e tangibile. Che, a leggerlo così, potrebbe sembrare un concetto folle, impossibile forse, ma solo perché probabilmente filtrato attraverso una mente abituata a trovarsi dall’altro capo della barricata: quello pacifico, stabile, sereno. Eppure, guardando la traversata, le difficoltà e le vessazioni subite da Amin e dalla sua famiglia – privata immediatamente del padre, prima ancora di cominciare il viaggio – durante il percorso che doveva servire a metterli al sicuro, un cortocircuito mentale così estremo e paradossale, equivale praticamente al minimo dei danni prevedibili e da mettere in conto. Basti pensare solo all’approdo in Russia (già, proprio lei), un hotspot cruciale per ogni Afghano intenzionato a raggiungere l’Europa. Basti pensare a come le guardie corrotte – consapevoli della situazione di chi avessero di fronte – si approfittavano di questi rifugiati terrorizzandoli e, molto spesso, aggredendoli gratuitamente: con l’obiettivo di privarli dei loro risparmi e, nel caso delle donne, prendendosi anche qualcos’altro.

Flee Amin Film

Immagini forti, immagini dolorose, e che a “Flee” interessa mettere in scena unicamente per dovere di cronaca, non di retorica. Fanno parte della sorta di terapia che Amin - sdraiandosi e provando a mettersi a suo agio davanti alla telecamera – esegue in apertura quando decide di confessare il suo passato al suo migliore amico e di conseguenza anche a noi: scavando a fatica, alla ricerca dei suoi scheletri e delle incongruenze della sua mente. Che poi è il motivo principale per cui la pellicola di Rasmussen è da considerarsi un documentario a tutti gli effetti, ovvero una storia nella quale i ricordi assopiti e soffocati (seppelliti?) devono trovare il modo di tornare a galla per permettere alla persona che li custodisce di andare avanti, di pensare al futuro, di vivere a pieno.
Di mettere a fuoco quell’identità che ancora – a trentasei anni – Amin continua a visualizzare intrisa di ombre e di paure; quel concetto astruso di casa che gli impedisce di affrontare serenamente la convivenza col suo compagno e l’esistenza della sua famiglia, nonostante il lieto fine – se tale possiamo definirlo – che gli ha permesso di raggiungere comunque la Danimarca, crescere in adozione con persone affettuose e gentili e di studiare per diventare l’accademico di successo che è oggi.

Traumi profondi che la magia del cinema riesce a ripescare, a esorcizzare e a rimarginare.
Permettendo ad un uomo a cui il coraggio e la determinazione non sono mai mancati davvero, di compiere l’ultimo (complicatissimo) passo verso la libertà (o verso quella piccola fetta della stessa, considerata minimo sindacale). 
Una libertà che, come la Storia recente insegna, è da ritenersi materia preziosa, precaria e, quindi, tutt’altro che scontata.

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