Blonde - La Recensione

Blondie Film

Finzione e realtà.
Realtà e finzione.
Quante volte, il cinema, è riuscito a mescolarle insieme, ad annientarle, a dividerle? Un processo costante e infinito, che permette senza interruzioni di dar vita a storie nuove, diverse, interessanti. Certo, quando si tratta di biopic, il processo tende a seguire delle linee guida più rigide, in teoria.
Eppure, “Blonde” – che, va detto, è tratto dal romanzo di Joyce Carol Oates, la quale già confessava nelle prime pagine di aver ceduto a una libera narrazione – si prende la responsabilità di rompere con forza anche questo schema. Raccontando il privato di Norma Jeane e il lato oscuro di Marilyn Monroe, attraverso l’alterazione dei fatti e una profonda immaginazione.

Un patto a cui lo spettatore non può assolutamente sottrarsi, se ha intenzione di provare a immergersi all’interno della pellicola di Andrew Dominik: dimenticando la verità conosciuta e accettando una ricostruzione, più o meno, ortodossa degli eventi (che, tuttavia, non andrà a modificare quella che sarà la destinazione finale). Perché Norma e Marylin, al di là delle tappe del viaggio, erano due personalità distinte che non la smettevano di abitare lo stesso corpo. La prima praticamente orfana, indifesa e fragile. E la seconda, attrice, diva e oggetto del desiderio (sessuale) americano e del mondo. Entrambe alla ricerca di qualcuno che riuscisse a cucirle e a metterle insieme; a comprenderle per poi farle coesistere: e poco importa se fosse stato un uomo, un marito, oppure un padre (assente/inesistente). Glie la si leggeva negli occhi, quella speranza, ad ogni (nuovo) incontro, ad ogni (nuovo) sguardo: subito pronta a mettersi il passato alle spalle e a ricominciare da zero. Peccato che quel passato, il suo passato – violento e crudele – non smetteva mai di perseguitarla; cambiava forma, magari, non indossava più il volto squilibrato della madre, ma gli esiti erano comunque i medesimi. Norma e Marylin erano destinate ad essere una proprietà: sia di un’industria che non poteva (e non voleva) permettersi di perdere la purezza di quel diamante (e ce lo suggerisce la scena di un aborto), sia di un maschilismo (tossico e abusato) che non accettava l’ostentazione e la condivisione della sua bellezza.

Blondie Dominik

E allora, sì.
È possibile descriverla addirittura così, questa storia.
Mentendo, esagerando, superando (certi) limiti.
L’importante è non destrutturare l’umanità (e la condizione) di un personaggio condannato a vivere in una gabbia dorata a tempo indeterminato. Costretto a subire torti, inganni, stupri e molestie, e poi a palesarsi davanti ai fotografi e alle telecamere col sorriso a trentadue denti. Con quel sorriso da bionda – per dirla con uno stereotipo – di chi sembra totalmente felice della fortuna che gli altri hanno scelto di attribuirgli.
E Dominik nel manifestare questo contrasto, nell’accentuare lo squarcio provocato dal persistere del doppio, decide di affidarsi a quanti più stratagemmi possibili gli consenta lo strumento che ha tra le mani. Altera i formati dell’immagine, cambia le focali, i frame, il colore, restituendo a noi spettatori quel distacco dalla realtà, lo spaesamento e l’instabilità mentale che la sua protagonista – una Ana De Armas stratosferica e dalla somiglianza impressionante – cerca suo malgrado di sostenere e di celare, pur rimanendone lentamente vittima.

Esperimento che gli consente, al netto di qualche calo di ritmo percepito nell’ultima mezz’ora, di sorprendere e di convincere. Permettendo a “Blonde” non solo di laurearsi come un grandissimo film, ma di rappresentare, nel suo filone, sicuramente un riferimento solido e con cui fare i conti (da adesso).
Che il mainstream sia d'accordo o meno. 

Trailer:

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