Di doversi affidare al proprio istinto, alle percezioni: riuscendo più o meno a farsi un’idea della storia, ma senza avere piena certezza di quanto accaduto.
Sensazione simile a quella che accade con i ricordi: quelli remoti, sbiaditi.
Memorie figlie di un tempo passato che rivivono nei nostri pensieri attraverso frammenti, scatti fotografici, oppure le immagini di un vecchio video.
Il primo merito di Charlotte Wells, allora, è quello di essere riuscita a trasmettere in pellicola, ciò che solitamente ognuno di noi è abituato a vivere con la propria testa. A condividere il privato di una bambina diventata ormai adulta, alle prese con una malinconia che la riporta all’ultima – probabilmente – vacanza fatta con il padre anni prima. Una vacanza di cui riesce ancora a mettere a fuoco le luci, come le ombre: quest'ultime fondamentali per permettere a noi di andare a completare un puzzle, altrimenti ambiguo. Sono gli anni ’90 e mentre il resort turco che li ospita mette in sottofondo canzoni dell’epoca – come My Oh My degli Aqua che (ri)ascolto a ruota da tre giorni – la piccola Sophie cerca di godersi la sua estate, lontana da casa e dalla madre, con cui è solita vivere. Per lei è un momento particolare, non solo per il tempo speso con un padre che non vede di frequente, ma perché è nella fase in cui l’adolescenza sta bussando alla porta, e sia nei discorsi che imbastisce, sia da dove lo sguardo continua a caderle – ragazzi e ragazze intorno che sperimentano la sessualità – capiamo che è già abbastanza grande da potersi accorgere e da poter avvertire – in parte, almeno – le emozioni più complesse, tipiche degli adulti.
Tendenzialmente, è un film rassicurante, “Aftersun”, uno di quelli che mentre lo vedi tende a stamparti un sorriso lungo il volto. Ogni tanto, però, è come se in quel sereno generale, si udisse un tuono. Un dialogo, una scena, uno sguardo che mina il sole splendente e minaccia un temporale. Un lavoro di scrittura e di regia che Wells porta avanti senza diventare mai didascalica o retorica – ed è al suo esordio in entrambi i ruoli: incredibile – e avvalendosi di espedienti intelligenti, con i quali queste rievocazioni vanno a interferire col presente, impastandosi con esso per poi scollarsi di nuovo e riprendere le (giuste) distanze. Diventa quindi una specie di romanzo di formazione, realizzato a posteriori questo viaggio: con Sophie che assimila, reagisce a ciò che vede e subisce, ma non ha a disposizione gli strumenti giusti per tirare le somme e capire realmente. Ed è qualcosa che a distanza di anni, evidentemente, non smette di turbarla. Forse perché quella cosa che all’epoca aveva colpito il padre, ora ce l’ha dentro anche lei, o forse, semplicemente, per colpa di un vuoto che esiste e che stenta a colmare.
E sono domande, queste, a cui “Aftersun” non risponde mai direttamente.
Che lascia aperte, o le cui risposte dissemina fra le pieghe.
Pieghe di ricordi che, per definizione, non possono essere accurati fino in fondo e che sta a noi e al nostro istinto, appunto, provare a leggere e a interpretare.
Magari, tra un brivido e una lacrima di commozione.
Trailer:
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