Tár - La Recensione

Tár Poster

Me lo sono sempre chiesto come funzionasse realmente il mestiere del direttore d’orchestra.
Li ho sempre visti sul palco, in piedi, con la bacchetta in mano ad agitarsi come se la musica fosse attaccata al loro corpo attraverso dei fili e non potesse suonare, se non senza quei movimenti.
Poi, però, ne vedevo anche alcuni così composti, così sobri, che mi portavano a pensare se quell’altro, lo scalmanato di prima, non stesse, come dire? Drammatizzando troppo.

E in “Tár” questo (mio) mistero trova appagante risoluzione, perché Todd Field ci porta praticamente dentro la vita di una (fittizia) direttrice di orchestra, una di quelle importanti, rispettate a livello mondiale. Lo fa entrandoci in punta di piedi, spiandola quasi con estrema riverenza e prendendosi tutto il tempo del mondo – due ore e quaranta! – prima di arrivare al punto e svelare quali sono le sue reali intenzioni. Perché inizialmente questo fake-biopic su Lydia Tár sembra quasi una dichiarazione d’amore nei confronti dell’arte musicale, mista a un trattato sul girl power: con Cate Blanchett – sublime, as usual – che dirige e insegna, sbandierando un potere smisurato, attraverso il quale nulla sembra essergli precluso (nemmeno umiliare un suo alunno che – stordito dalla cultura woke, probabilmente – si rifiuta di suonare Bach). Sembra uno Zar posseduto da uno spirito, una donna intoccabile, tormentata dal talento e, quindi, minacciata dai suoi demoni e pure da alcune ex-collaboratrici che, forse, erano legate a lei extra-lavorativamente. La sua omosessualità è dichiarata, infatti, e certi sguardi, certe tensioni sessuali nei confronti delle studentesse più giovani, non nascondono un desiderio che tuttavia è destinato a rimanere tale: causa una relazione stabile, con tanto di bambina al seguito. Un equilibrio e una retta via che ci sono, insomma, ma che evidentemente sono sofferti, precari, sostenuti da una dipendenza medica senza la quale l’intero castello rischierebbe di crollare.

Tár Cate Blanchett

Tant’è che poi crolla.
E lo fa lentamente: con Field che dai folti e prolissi dialoghi comincia a dedicarsi maggiormente alle immagini, agli sguardi. A tessere una trama thriller che a posteriori appariva secondaria, allusiva, salvo deflagrare all’interno di una seconda parte tiratissima, nella quale il suo film mette finalmente da parte i preamboli, alzando toni e volumi. Quando certe accuse vengono a galla, “Tár” vira in quella direzione a cui aveva strizzato l’occhio già più volte, prendendosi il carico e – perché no – il coraggio di parlare di cancel culture in una maniera tutt’altro che buonista e pacifica (e retorica). Quella di Field è un’accusa diretta agli atteggiamenti, ai sospetti che diventano automaticamente certezze e che scatenano, infine, delle immediate radiazioni: con tutto ciò che può significare la cosa a livello lavorativo, privato e psicologico (e famigliare). A lui non interessa risolvere il caso, a lui interessa aprirlo, gettare il seme, dimostrare come basti una folata di vento, ormai, per scatenare i danni di una tempesta.

E di fronte a una corrente come questa, che è testarda e irragionevole (perché applicata ipocritamente, non perché sbagliata, sia chiaro), l’unico modo per potersi difendere è prenderne atto e arrendersi. Come fossimo ognuno il concorrente di uno Squid Game moderato, in cui se hai sfortuna non ti resta che abbassare la testa (e l’orgoglio) e chinarti a raccogliere i cocci. Che per Lydia Tár sono taglienti, ma fino a un certo punto, sebbene sia palese che le ripercussioni cambino da soggetto a soggetto.  

Trailer:

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