John Wick 4 - La Recensione


John Wick 4 Poster

Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l'etterno dolore, per me si va tra la perduta gente.
Si apre col Bowery King di Laurence Fishburne che recita il Canto III dell’Inferno di Dante, “John Wick 4”, preannunciando il putiferio che di lì a poco verrà scatenato.
Se nel terzo capitolo, infatti, avevamo toccato vette altissime in termini di sospensione dell'incredulità, stavolta quelle stesse vette sembrano nulla, in confronto alle nuove: con noi spettatori costretti a sospendere totalmente il giudizio in merito a ciò che può essere e ciò che non può essere.

E la chiave per fare in modo che questo patto funzioni, è rappresentata della new entry che porta il volto e il fisico di Donnie Yen: in  quel nemico/amico Caine che, assoldato dal Marchese della Gran Tavola per mettere fine alla piaga Wick, somiglia tanto al Daredevil della Marvel. Occhiali scuri, bastone da orientamento per deambulare e avversario impossibile da affrontare. Anzi, da colpire. È il segnale di uno sconfinamento; dell’action e del noir che incontrano il cine-comic, generando una commistione di generi che funziona ogni qualvolta si ricorda – non troppo spesso, purtroppo – di non prendersi troppo sul serio. Del resto, era l’unico modo che aveva Chad Stahelski per continuare ad ingigantire il suo giocattolo, a spingersi oltre, realizzando un film che guarda al modello dei videogiochi e dove la trama serve solo a passare da uno scenario all’altro e a mettere in moto la violenza. Poche parole e più calci, pugni e sparatorie. Questa è la filosofia di “John Wick 4”, che fa delle coreografie dei combattimenti e dell'eleganza il suo principale punto di forza. Un lavoro che, onestamente, paga e che riesce, a tratti, persino a sorprendere e a divertire, almeno finché questa resa dei conti di circa tre ore, non comincia a dare l'impressione di girare un po' troppo a vuoto.

John Wick 4 Reeves

E, forse, è il punto più debole dell'intera pellicola, questo eccessivo minutaggio.
Questa voglia – che fa rima con insicurezza – di voler strafare per essere convinti di superarsi ancora e ancora una volta. Il rischio è che, arrivati a metà strada, sorga una sorta di saturazione negli occhi – e nella testa – dello spettatore, il quale pur continuando ad apprezzare la bellezza delle trovate visive – gli inseguimenti per le strade di Parigi, la sparatoria nella casa abbandonata, gli scalini di Montmartre – è comunque sfinito da questa serie di ostacoli messi lì apposta a cincischiare e ad allungare un brodo che, con meno acqua, avrebbe sicuramente trattenuto molto più del suo sapore.
Epicità e senso della misura, insomma, due concetti che a Hollywood ultimamente tendono a fondere e a confondere, inseguendo il verbo more is more, penalizzante per la maggior parte dei blockbuster e, quindi, per l’intrattenimento.

Poi, si sa, resta ugualmente un riferimento, la saga di John Wick.
Un prodotto che per gli amanti dell’action è oro colato, nonché imprescindibile: sia per tecnica, sia per capacità di aver creato un universo parallelo, azzeccando ogni ingranaggio utile a renderlo credibile.
L’unica (grande) pecca, appunto, è che rispetto a un prodotto analogo, l’impegno richiesto per una sua visione risulta il doppio del normale.
E per film di questo tipo, ciò può diventare un malus insormontabile.

Trailer:

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