C’è un elemento che potrebbe risultare di disturbo in “AIR: La Storia Del Grande Salto”, ma che invece non lo è per niente.
Una sorta di forzatura che fa il Ben Affleck regista per suggerire allo spettatore più distratto (più pigro?) la vera direzione del suo film. E questo elemento riguarda la figura del giovane Michael Jordan: tecnicamente centro della (sua) storia, eppure inquadrato perennemente di spalle e mai davvero visibile in camera.
Stratagemma necessario per impedire che l’attenzione di qualcuno rischiasse di catalizzarsi in maniera errata; che anziché la luna si cominciasse a guardare il dito, o per dirla meglio, anziché sul viaggio ci si concentrasse solo sulla meta.
Che Michael Jordan, alla fine, firmerà uno storico contratto di sponsorizzazione con la Nike, del resto, lo sanno tutti coloro che nella vita hanno indossato almeno una scarpa. Il come ci è arrivato a farlo, però è assai meno noto. Il che lo rende assolutamente meno scontato – e più interessante – di quanto si possa immaginare.
L’azienda diventata famosa per il suo iconico baffetto, infatti, a metà degli anni ’80, nel basket, era considerata un’ultima scelta, un underdog. E al Sonny Vaccaro di Matt Damon spettava l’arduo compito di provare a invertire la rotta. Ce lo presenta come un uomo a cui piace il brivido della scommessa, la pellicola: che gioca d’azzardo con grande intuito, senza accontentarsi delle vincite e rilanciando fin a quando in mano non gli è rimasto neppure un dollaro. Un uomo d’istinto, quindi. Ma pure imprevedibile, pericoloso (per un’azienda). Caratteristiche che, nel bene e nel male, gli hanno permesso di diventare il dirigente marketing di una multinazionale e di credere – soprattutto e contro ogni pronostico – che l’ingaggio di Jordan alla Nike non fosse così impossibile (e rischioso) come effettivamente era.
Specialmente perché, nella sua testa, cominciava a farsi largo una strategia d’azione (folle e fuori dagli schemi) che avrebbe cambiato per sempre le regole del gioco.
E del mercato.
Parla di questo, allora, “AIR: La Storia Del Grande Salto”, e lo fa con un’effervescenza e una brillantezza di scrittura che è entusiasmante e sorprendente allo stesso tempo. Merito di una sceneggiatura – scritta da Alex Convery – che non può non ricordare quel “Moneyball: L’Arte Di Vincere” scritto da Aaron Sorkin: con questi personaggi che parlano, discutono animatamente, guardano nastri al registratore e assimilano numeri e informazioni per provare a battere un sistema che li vorrebbe già sconfitti e incapaci di coronare il loro sogno (che in questo caso oltre che americano è pure capitalista, ma restiamo sulla forma). Certo, in quel caso Brad Pitt e Jonah Hill avevano deciso di affidarsi ai dati di un computer, agli algoritmi, mentre stavolta Damon – che è un po’ cavaliere solitario in questa crociata – deve accontentarsi del suo sentore e puntare ogni singolo centesimo sul rapporto umano, sulla sua onestà e sulla capacità che ha di vedere in anticipo le mosse avversarie e il futuro di uno straordinario campione che, proprio come lui nel settore che gli compete, di lì a breve scriverà pagine indelebili nella storia dello sport (e non solo).
Altro che genesi di una scarpa.
Emoziona, diverte, intrattiene.
Emoziona, diverte, intrattiene.
Non sbaglia praticamente nulla “AIR: La Storia Del Grande Salto” e, forse, il merito è di un regista come Affleck che ha avuto il coraggio – visionario pure lui? – di prendere in mano questo copione – presente nella black list dei migliori copioni non prodotti – e tirarne fuori probabilmente il miglior film possibile.
Una giocata semplice, apparentemente, eppure affatto scontata.
Trailer:
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