Il De Roller di Benoît Magimel – che qui sembra una via di mezzo tra un Joaquin Phoenix e un Johnny Depp fuori forma – è un Alto-Commissario della Repubblica trasferito in pianta stabile sull’isola di Tahiti per conto del governo francese. Per gli abitanti del posto è un punto di riferimento, un’istituzione, un uomo di potere: tutto passa, o si ferma, attraverso di lui. O perlomeno così (gli) sembra.
Perché nella tranquillità paradisiaca, fatta di splendidi tramonti, spiagge, cocktail e serate in discoteca, una misteriosa voce comincia a minacciare la quiete del posto e la sua autorità: quella di una Francia (e del suo sottomarino) che vorrebbe tornare lì ad eseguire dei test nucleari.
E' un thriller politico anticonvenzionale, quello di Albert Serra, il quale sceglie di prendere la strada rischiosissima di non seguire nessuna linea guida o stereotipo del genere e gestire a modo suo lo scorrere della narrazione. Tutto in “Pacifiction” infatti è calmo, controllato, viaggia a ritmo sostenuto, a prescindere dagli intrighi e dalle indagini (personali) che i rumors mettono irrimediabilmente in moto. I personaggi strani che sbarcano sull’isola – e che si incrociano con De Roller – possono essere strambi vacanzieri, come smaliziate spie, difficili da intercettare, e a quel punto non resta che prendere in considerazione il beneficio del dubbio e giocare una partita fatta di strategie, nervi e intelletto. Tutto però senza andare ad alterare o a stravolgere la quotidianità, la pace dei sensi, l’equilibrio di un territorio che non deve perdere il suo status di estasi e di benessere. Che poi è uno dei motivi che spinge De Roller a volerci vedere chiaro, a volerlo difendere quel territorio, a non permettere che il suo Regno gli venga sfilato da sotto il sedere, senza nemmeno aver provato a dar filo da torcere ai suoi nemici. Perché più che per una questione di diritti e di umanità verso il prossimo – che pure c’entrano e vengono citati – De Roller è il Signore che teme di dover rinunciare alla sua ricchezza, lo Sceicco Bianco – letteralmente, da come si veste – fin troppo attaccato alle sue vesti (e ai suoi privilegi).
Non un cattivo, dunque, ma neppure un buono (facciamo un'opportunista).
E nonostante un pizzico di fatica che – è inutile nasconderlo – purtroppo c’è, e in quasi tre ore di visione tende a farsi sentire a corrente alternata, “Pacifiction” sa comunque come tenerti lì, interessato, coinvolto. Affascinato dalle inquadrature, dai colori, da quest’atmosfera incantevole e sospesa che all’improvviso si fa netto contrasto coi risvolti della trama. E ti tiene lì anche perché Serra rischiando, vince. Vince nel rifiutarsi di concederci una bussola, una traccia. Vince impedendoci di anticiparlo, di prevedere la (sua) prossima mossa, o risvolto. Ed è un lusso che nel cinema moderno possono – e hanno il coraggio di – concedersi ancora pochissimi (autori) e che nello spettatore – nello spettatore esigente, almeno – scatena quella sorta di curiosità (di meraviglia?) e di mancanza di terra sotto i piedi che tiene vivo lo spirito e che, forse, sarebbe ora di cominciare a considerare come un criterio principale quando si va a giudicare il valore di un film.
Al netto delle frenate e delle (rare) accelerate, allora, in “Pacifiction” c’è – prima di tutto – una enorme voglia di fare cinema che poi è quella che tutti – mi auguro – andiamo cercando ogni qual volta decidiamo di pagare un biglietto, o di premere play su un telecomando.
Poi, magari, nei pensieri di Serra c’è pure la volontà di seminare frecciatine politiche e provocazioni pungenti, ma se fosse, ecco, queste rimangono lì, sparse tra i contorni.
Senza la pretesa di voler essere raccolte per forza.
Trailer:
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