Asteroid City - La Recensione

Asteroid City Wes Anderson

Colori pastello, inquadrature geometriche, atmosfere surreali.
A chi non piacerebbe vivere dentro a un film di Wes Anderson?
La domanda è retorica, ovviamente, anche perché la risposta è contenuta nella quantità (e nel calibro) di attori che ogni volta fanno a gara solo per dire una battuta, o comparire sullo sfondo delle sue storie.

Il cinema di Wes Anderson, negli anni, è diventato una sorta di luogo dei sogni: un posto in cui si sta bene, ci si rilassa e – a volte – ci si scalda il cuore. E “Asteroid City” sembra quasi voler cementare tutto questo, riproporre un canovaccio consolidato, apportare pochissime modifiche al contesto, rinfrescandolo, e poi dare il via a una sfilata di strambi personaggi a cui, inevitabilmente, ci affezioneremo per un motivo o per un altro. Una messa in scena, insomma, architettata appositamente e dichiarata a gran voce nel prologo affidato a Bryan Cranston, che da bravo presentatore fa capire subito lo stile e i toni di una pellicola che vuole tornare a strizzare l’occhio al meta cinematografico, usandolo non solo come pretesto narrativo, ma pure come scorciatoia nei confronti di una scrittura che, probabilmente, non è più affinata come ai vecchi tempi. È appagato Anderson (stanco?), o perlomeno è disinteressato a sorprendere il suo pubblico. Traspare questo, da qualche anno a questa parte, osservando i suoi lavori. La fiamma che prima faceva pulsare e che contribuiva a dare un’anima alle sue opere ora è fioca, se non spenta, e l’unico motivo che lo spinge ancora a produrre idee e racconti pare sia il divertimento che prova ad essere circondato dalla sua combriccola di amici.

Asteroid City Jason Schwartzman

Per quanto simpatico e assolutamente gradevole, allora, questo “Asteroid City” è l’ennesimo esercizio di stile. Un esercizio di stile dove Anderson replica sé stesso, salvo provare ogni tanto a sperimentare qualcosa di nuovo: e, forse, è proprio in quegli spazi, in quei graffi, che si riescono a percepire dei sussulti interessanti. Per il resto, potremmo paragonarlo a un quadro di fronte al quale ci si abbandona volentieri, ma che una volta usciti dal museo, lascia addosso solo vaghi ricordi, questo film. Sebbene, nella variegata striscia di personaggi e di situazioni, non mancavano le possibilità e gli spunti per scavare a fondo e creare maggior spessore: a partire dal dolore che unisce l’Augie di Jason Schwartzman alla Midge di Scarlett Johansson, passando per la cotta adolescenziale che nasce tra i loro figli e sfruttando l’apparizione di questo alieno che sconvolge l’intera (piccolissima) cittadina, costringendola a rimanere in quarantena a tempo indeterminato.

Nel desiderio di apertura che all’improvviso sembra travolgere i presenti - stimolati dall’incontro ravvicinato del terzo tipo - e negli intermezzi in bianco e nero, in cui vediamo lo sceneggiatore e il regista teatrale alle prese con la pre-produzione della storia che stiamo vedendo, c’erano le potenzialità per andare a sgrezzare un papabile gioiello che così, invece, appare più vicino ad un ottimo prodotto di bigiotteria. Bigiotteria di alta classe, se preferite, ma nulla di più.
E da uno come Anderson che ha dimostrato ripetutamente, negli anni, di possedere un talento cristallino, magari anche unico, nel suo genere, peccare di pigrizia (o, peggio, di superbia) è l’errore più grande e imperdonabile che ci si potesse aspettare.
Meglio, a questo punto, prendersi una pausa e riordinare idee, stimoli e ambizioni.

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