El Conde - La Recensione

El Conde Poster

Pablo Larrain
– o meglio, il suo cinema – ce l’ha sempre rammentato: Augusto Pinochet non è morto.
La sua storia, la sua influenza, i suoi peccati respirano ancora e sopravvivono nelle terre del Cile, non smettendo di suggestionare e di ispirare alcuni membri della sua popolazione.
In un certo senso, quindi, potremmo quasi azzardare a dire che Pinochet è vivo, immortale.
Paragonarlo ad un essere mitologico, magari, tipo, non so, un vampiro.
Che poi è quello che, sostanzialmente, prova a fare “El Conde”.

La Storia si fa anche con i se, dice Nanni Moretti (e diceva Quentin Tarantino), perciò facciamo finta che dopo aver inscenato la sua morte, Augusto Pinochet si sia ritirato a vivere con sua moglie Lucia e il suo fedele maggiordomo Fëdor in una villa sperduta della Patagonia. A tenerlo in vita e in forze, i frullati di cuore umano che però adesso ha smesso di bere. Dopo 250 anni vuole lasciarsi morire, a quanto pare. Abbandonare una vita che continua a negargli la riconoscenza che il suo ego, invece, è convinto di meritare. Con i figli che non vedono l’ora che si tolga di mezzo per mettere le mani sulla sua (infinita) eredità. Gli stessi figli che, non appena vengono a sapere di alcune strane morti avvenute in città, decidono di assumere una suora contabile destinata a dargli il colpo di grazia. Come se la notizia di quel sangue versato, rischi di rappresentare adesso una fastidiosa, nuova gioia di vivere del padre.
Siamo chiaramente nel territorio della satira. Ed è la prima volta nel lungo rapporto tra Larrain e Pinochet (che esiste da “Tony Manero”, “Post Mortem” e “No: I Giorni Dell’Arcobaleno”). Si tratta di una satira altamente corrosiva, sfacciata (e quindi gustosissima), con la quale il regista (e co-sceneggiatore, insieme a Guillermo Calderón) rinnova il disprezzo per il dittatore (e la dittatura), ma si ritaglia pure il lusso di poterlo affrontare da vicino, come uomo privato. Senza rinunciare al potere dell’immaginazione e della fantasia: due colonne portanti in “El Conde”.

El Conde Larrain

Del resto, la voglia di umanizzare Pinochet, di sforzarsi a raccontarlo come ha fatto con Lady Diana, o con Jackie Kennedy, a Larrain non passa nemmeno per l’anticamera del cervello. Sarà per via di una giusta distanza che, per coinvolgimento emotivo, verrebbe a mancare, chi lo sa? O, semplicemente, perché ciò andrebbe a sottrarre tutto il divertimento di una pellicola che ha senso di esistere solo nel momento in cui sceglie di essere libera, astratta. Un giocattolo nelle mani di un bambino, eppure un giocattolo che, quando vuole, sa come affilare i suoi denti e andare a mordere in profondità. Tanto in profondità. Perché Larrain vorrà pure togliersi uno sfizio, prendere in giro una dinastia e strizzare l’occhio al genere horror, ma tendenzialmente non ce la fa a smettere i panni dell’autore (grande) che è, e a non concedersi il lusso di un twist capace di rompere i “confini familiari”, sparigliando tutte le carte sul tavolo e istituendo inedito sguardo all’intera storia (e Storia).

E quando accade, oltre a rimanere sorpresi dall’intuizione e dall’intreccio (geniale), lo spasso si ingigantisce, portando in superficie associazioni stranissime e (forse) illogiche, ma che, comunque, stanno lì per tentare di dirci qualcosa. Qualcosa di serio, probabilmente.
E, come ogni satira che si rispetti, allora, si finisce a ridere, ma con riserva.
Con quel pizzico di amaro in bocca.
Col terrore che non sia esattamente la reazione appropriata.
Perché, ad essere onesti, in realtà, qui da ridere c’è ben poco.

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