Il Ragazzo E L’Airone - La Recensione

Il Ragazzo E L'Airone Poster

C’è un luogo in “Il Ragazzo E L’Airone” che a vederlo, esteticamente, mi ha fatto ripensare a “Gli Spiriti Dell’Isola”.
E’ uno di quelli in cui finisce Mahito, il giovane protagonista mentre, proprio come Colin Farrell – ma guarda un po’ – vaga alla ricerca di una verità che, in qualche modo, si intreccia con la drammatica morte di sua madre: avvenuta una notte, durante i bombardamenti della Guerra – una Guerra che, prologo a parte, per Miyazaki diventa silenziosa proprio come lo era quella civile irlandese per McDonagh – che hanno costretto suo padre a lasciare Tokyo e a trasferirsi nella provincia, ricominciando una nuova vita accanto alla sorella (identica) della defunta. Qui, uno strano airone cenerino comincia a prendere di punta Mahito, attirando la sua curiosità prima e la sua attenzione poi. Neanche fosse posseduto da uno spirito di misteriosa entità.

Perché a differenza del film di McDonagh, nel film di Miyazaki gli spiriti esistono, si palesano.
Li vediamo chiari e tondi, infatti, nelle vesti di animali (anche orripilanti) che, complice una torre con una leggenda ambigua, giungono da noi tramite un portale che collega il nostro mondo ad altri paralleli, necessari a mantenere una sorta di equilibrio universale. E quando Mahito disobbedisce e manda all’aria le regole, questi equilibri universali – che già benissimo non se la passavano – cominciano a traballare ancora di più, reagendo alla sua testardaggine con veemenza, per provare a ristabilire l'ordine. Un ordine che, forse, ha bisogno di nuovi padroni. Di padroni più giovani.
Del resto è stato lo stesso Miyazaki a paragonare questo suo ultimo lavoro – gli crediamo? – ad un vero e proprio testamento. Un testamento dedicato al nipote, in teoria, ma letto a voce così alta che è normale distrarsi un momento e immaginare che si stia rivolgendo a noi spettatori. L’intento, neanche a dirlo, è commovente, l’esecuzione spiazzante. L’età e la pausa – mancava da dieci anni, al cinema – non lo hanno arrugginito per niente, anzi. L’impressione è che più che per una sua di necessità – affettiva o spirituale che sia – questo “Il Ragazzo E L’Airone” serviva al cinema d’animazione esattamente come l'acqua in mezzo al deserto.

Il Ragazzo E L'Airone Miyazaki

Disseta gli occhi e la mente, il regista giapponese: con le sue immagini e le sue idee mirabolanti, sempre fuori dagli schemi. Costruisce un viaggio folle e strabordante di fantasia, destreggiandosi tra aironi con i denti, pellicani che si nutrono di (potenziali) esseri umani e pappagalli bastardissimi. Un concentrato di libertà e creatività, ma, contemporaneamente, anche una lezione di stile a tutti quei colleghi che, ultimamente, hanno deciso di legarsi le mani e di diventare schiavi di una cultura (di un movimento) che tende a castrare estro e meraviglia.
Mangia in testa a ognuno di loro, Miyazaki e nonostante i suoi 82 anni è lucido abbastanza da ricordare (ribadire e insegnare) quanto sia importante non perdere mai di vista la voglia di osare e sperimentare: mettendo potenza visiva, talento e bellezza al di sopra di qualsiasi scopo e priorità.
Specie se l’obiettivo, poi, è quello di voler nutrire un mondo ormai a un passo dall’autodistruzione.

Ci sono tanti strati, allora, dentro “Il Ragazzo E L’Airone”; tanti livelli che difficilmente, chi guarda, riuscirà a leggere e a decifrare in tempo reale, con una singola visione.
Però, è altrettanto vero che la sincerità, la poesia e la sensibilità del suo autore lavorano sottotraccia, consentendoci di entrare emotivamente in contatto con un’opera dal sapore dolce, tenero e rassicurante.
Come un abbraccio tra nonno e nipote.

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