Ci sono film che per essere apprezzati, per fare in modo che tu ci cada dentro, hanno bisogno di essere visti in determinate condizioni.
Forse, addirittura, hanno bisogno di una preparazione, di mettere in contatto lo spettatore con l’autore, se quell’autore ha la tendenza ad essere anti-convenzionale e, magari, pure bravo, bravissimo, ma non adatto a chiunque.
Ora, io Jonathan Glazer non lo conosco. Personalmente, so a malapena che faccia abbia, mentre dei suoi lavori avevo visto solamente “Birth: Io Sono Sean” e “Under The Skin”: il primo mi aveva lasciato piuttosto indifferente, mentre il secondo – ero al Festival di Venezia, quell’anno – mi aveva irritato non poco.
Ammetto, perciò che con “La Zona D’Interesse” un pizzico prevenuto lo ero (e, sicuramente, non dovevo) e che l’averlo visto in condizioni non esattamente ideali, a primo impatto ha giocato un ruolo (negativo).
Però poi è successa una cosa strana: a distanza di ore ho cominciato a rimuginarci su, a ripercorrerlo lentamente, ad analizzarlo. E all’improvviso, quel film che avevo troppo velocemente battezzato come “altezzoso e non riuscito” stava lì a negoziare con le mie opinioni, portando argomenti validi e riscattando pregi. Perché, per quanto resti dell’idea che Glazer sia un autore almeno un pizzico presuntuoso, l’idea di raccontare i campi di concentramento di Auschwitz, e quindi il periodo nazista, come ha fatto lui io non l’avevo mai vista. E, per certi versi, l’intuizione di ribaltare il punto di vista, e di non mostrare ciò che la nostra immaginazione conosce, ma l’angolo (l’unico angolo?) di Paradiso nascosto alle sue spalle - dove la numerosa famiglia di un soldato alloggia per facilitazioni logistiche d'ufficio - è senza dubbio notevole. Lo è specialmente nell’istante in cui la vediamo vivere come vivrebbe una qualsiasi famiglia normale, ovvero spensierata, felice, come se quell’inferno oltre le loro mura fosse solo frutto del nostro errato intuito, o non esistesse affatto.
E, di fatto, non esiste, visto che la camera resta fissa nel perimetro della villa: impegnata a riprendere gli interni e il vastissimo cortile esterno, per spingersi al massimo lungo la riva del fiume, in cui è possibile fare il bagno oppure pescare.
Le cosiddette red flag, allora – quelle che ogni tanto tornano per rassicurarci che non stiamo andando fuori strada, e che abbiamo contestualizzato correttamente la situazione – diventano le divise degli ufficiali e, ancora di più, i suoni e le urla che Glazer usa, di tanto in tanto, per spezzare la routine quotidiana e quel clima gioioso e celestiale. Li percepiamo come fossero allarmi acustici, rotture di uno schema ingannevole che risvegliano la nostra memoria, e ci riportano alla cruda realtà. Realtà che, seppur a sprazzi e seppur accidentalmente, sgomita per chiedere aiuto e venire a galla: turbando magari la spensieratezza della famiglia e terrorizzando noi, disimparati alla visione del terrore. Ma non è un crescendo, sia chiaro.
La direzione della pellicola è categorica: less is more.
Per cui la brutalità della fabbrica della morte resta invisibile, evocata: nei dettagli e nelle parole del soldato protagonista che ne parla al telefono con la moglie come se niente fosse. Anzi, come se il suo compito fosse ordinaria amministrazione.
Silenzioso agisce e silenzioso scava, dunque, “La Zona D’Interesse”.
Che pur restando una pellicola costruita per correre in senso opposto ai gusti del grande pubblico (e può essere un pregio, attenzione), ha la capacità di suggestionare e di angosciare quanto basta per continuare a decantare a distanza dalla visione.
Nel mio caso, ribaltando quasi del tutto gli esiti di un approccio non propriamente positivo.
Che pur restando una pellicola costruita per correre in senso opposto ai gusti del grande pubblico (e può essere un pregio, attenzione), ha la capacità di suggestionare e di angosciare quanto basta per continuare a decantare a distanza dalla visione.
Nel mio caso, ribaltando quasi del tutto gli esiti di un approccio non propriamente positivo.
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