Quando è uscito "Dune", tre anni fa, nessuno sapeva ancora se ci sarebbe stato un secondo capitolo. Non lo sapeva nemmeno Denis Villeneuve, nonostante la sua pellicola - ottimista - terminava il racconto lasciando tutto in sospeso, tutto irrisolto.
Persino la locandina di quel film era fuorviante: perché non era stato inserito da nessuna parte il sottotitolo parte uno.
Insomma, l'idea di base era capire come il pubblico avrebbe reagito di fronte ad un nuovo adattamento del romanzo di Frank Herbert. Senza fare progetti, senza fare promesse. Magari, con l'ambizione di non pasticciarlo ancora, dopo la realizzazione-incubo avuta da David Lynch.
E se adesso siamo qui, a parlare di "Dune: Parte Due" - stavolta quel sottotitolo c'è scritto sul poster - è perché le cose sono andate piuttosto bene. Non secondo il sottoscritto, magari, ma secondo ciò che conta di più ad Hollywood, ovvero gli incassi. Per farvi capire meglio, le cose sono andate talmente bene che adesso è praticamente ufficiale l'uscita di "Dune: Parte Tre" (teoricamente l'ultima).
Ma andiamo per gradi.
Perché in questo secondo spaccato Villeneuve si comporta in maniera un tantino diversa: riduce gli spiegoni di cui aveva infarcito la metà precedente, aumenta il ritmo e la spettacolarità, ma soprattutto cerca di rendere il suo lavoro appetibile e comprensibile anche a coloro che dovessero decidere di volerlo approcciare senza recuperare la puntata precedente. E a primo impatto - e per primo impatto, intendo per la prima mezz'ora - le cose sembrano andare alla grande. Rispetto a come era imballata la parte uno, qui finalmente le cose succedono, la storia si smuove e pure nei confronti dei personaggi comincia a instaurarsi quell'empatia, quella profondità che in origine era stata completamente assente. Solo che poi l'occhio comincia a spostarsi, a saltare di palo in frasca, abbandonando il Paul di Timothée Chalamet e la sua gente per spiare un po' cosa succede dall'altra parte, quella maligna. Ed è qui che la narrazione si appesantisce, che divaga, che perde via via il suo pathos (e perde pure la presenza di Javier Bardem, che quando è in scena si mangia tutti quanti).
Ora, è normale ipotizzare che quei controcampi narrativi siano obbligati, che servano a far muovere la trama e che sarebbe stato assurdo se fossero stati ignorati. Però, è altrettanto vero che a quei personaggi Villeneuve non restituisce il medesimo spessore, la medesima cura: sono cattivi bidimensionali, tagliati con l'accetta, che si divertono a spaccare teste quando sono arrabbiati, o a sgozzare gole per rimarcare la loro malvagità. Si, un paio di volte c'è modo di mettere il naso nel torbido della politica, nel potere, ma quegli intrighi - assai più stimolanti - sono fugaci, accennati. Per cui è fisiologico se poi la nostra soglia di attenzione lentamente si assottiglia e se la noia, purtroppo, comincia a farsi largo. Più che altro è fisiologico che ciò accada, quando tu decidi di spingere ulteriormente su baracconate ed effetti speciali, limitando ulteriormente la luce verso i contrasti interni dei personaggi, verso le loro volontà, e i loro demoni, che spesso fanno a botte con quello che dovrà essere il loro destino.
La verità, allora, è che in questo "Matrix" che incontra "Star Wars" - e che paradossalmente, oggi, non può non far pensare anche alla guerra in corso tra Israele e Palestina, ma questa è un'altra cosa - e che avrebbe avuto tutte le carte in regola per proporsi come prodotto altissimo di fantascienza, c'è troppa industria cinematografica moderna. Troppi calcoli, troppi compromessi e algoritmi da incasso al botteghino. E quindi poca, pochissima preoccupazione verso un cuore che trova spazio minimo, spazio insufficiente, per battere come dovrebbe.
Più che un'epopea, allora, più che un blockbuster epico, "Dune: Parte Due" somiglia a un sequestro di persona (due ore e tre quarti, ma perché?). Uno di quelli che a metà visione cominciano a farti guardare l'orologio, a chiederti quanto manca, a farti pensare "Ma chi me l'ha fatto fare?".
Perché come si diceva una volta, il troppo storpia. E storpia pure se, secondo alcuni, aiuta a far vendere i biglietti al botteghino.
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