L'ostacolo maggiore, quando ci si trova a dover fare i conti con titoli del calibro di "Racconto Di Due Stagioni" è quello di riuscire a superare i nostri pregiudizi.
Il pregiudizio verso un film dalla durata di oltre tre ore. Il pregiudizio di una nazionalità, la Turchia, che sconfina parecchio dal solito cinema americano, italiano e, forse, francese che siamo abituati a vedere. E, infine, il pregiudizio di una storia che viaggia a un ritmo - giustissimo - decisamente più sostenuto rispetto a quello dei prodotti mainstream, contemporanei.
Ma messi da parte questi scogli e pure questi (nostri) limiti, ad accoglierci troviamo qualcosa di straordinario, di unico, che difficilmente riusciremmo a toglierci dalla memoria. Perché quello diretto da Nuri Bilge Ceylan è un film che racconta - e lo racconta benissimo - di condizioni esistenziali, di solitudini (diverse), di quanto vivere certi stati d'animo possa influire sulle nostre scelte e sul nostro slancio nei confronti della vita. Un film che racconta di rimbalzo - e non solo - la Storia di un paese; che spesso si concede il lusso (e il rischio) di discutere di politica, di attivismo, ragionando con grande lucidità sull'etica e sulle responsabilità che ci riguardano (e da cui a volte fuggiamo). Ma un film, ancora, che cerca di legare l'arte, anzi la bellezza e l'importanza dell'arte, al bisogno di una speranza e di un domani migliore, perché, appunto, se il terreno su cui coltiviamo non è fertile, non potrà generare altro che erbe secche. E di fertile nell'Anatolia - nella periferia - che ospita i protagonisti di "Racconto Di Due Stagioni" c'è poco o niente. Un luogo in cui esistono solamente due stagioni - estate e inverno - e dove la massima aspirazione è fare i bagagli e andarsene altrove (a Istanbul). O perlomeno questo è ciò a cui ambisce Samet, il professore d'arte che scalpita per salire in graduatoria e raggiungere il punteggio che gli consentirebbe di approdare in una qualsiasi scuola della capitale. Gli unici sorrisi che gli vediamo elargire sono quelli che dedica alla sua alunna adolescente Sevim, la quale gli ricambia l'affetto fino al giorno in cui un incidente accaduto in classe non la spinge a denunciarlo alla direzione per delle "leggere" molestie ricevute.
Ma attenzione, perché quello di Ceylan non è il genere di film che state immaginando ora. L'indagine che Samet - e che coinvolgerà anche Kenan, un altro insegnante della scuola nonché amico e co-inquilino di Samet - dovrà scontare e patire non diventerà il cuore della trama, anzi. Da quel momento in poi la tela tessuta comincia ad allargarsi, a mostrare ulteriori perdite di felicità, di fiducia verso il prossimo: trasformando Samet ancora di più nella persona cinica, triste e disillusa che avevamo imparato a conoscere e minando il sorriso e la positività di Kenan, che di Samet era praticamente l'esatto opposto. Persino tra loro due nascono delle avvisaglie, riversate poi nel triangolo amoroso che coinvolgerà anche la povera Nuray: una collega appartenente ad un'altra scuola, rimasta senza una gamba a seguito di un attentato. Tasselli che aumentano, si moltiplicano, e che servono a Ceylan per andare ad alzare lo sguardo e arrivare a fare un discorso più largo, più filosofico. Tant'è che il mistero di sapere se tra Samet e Sevim ci sia stato davvero qualcosa di proibito, non monta mai seriamente. Il loro rapporto è ambiguo sin dalla prima inquadratura, è vero, ma dentro di noi sappiamo che, in realtà, dietro quella denuncia c'è una vendetta, c'è un mondo a parte. Ed è il mondo che viene spiegato in un violento dialogo a lume di candela e approfondito con cura in una cena-rubata (girata così bene da farci cadere a terra la mascella) da Samet, con l'intento di ferire gratuitamente Kenan. Il nostro mondo, insomma, dove cattiveria, malafede ed egoismo prendono il sopravvento, rovinandoci come comunità e come esseri umani. Lo stesso da cui vorremmo estraniarci e prendere le distanze, rifugiandoci magari in alternative astratte, proibite e per nulla realizzabili.
Concetti che troveranno espressioni assai più poetiche e malinconiche prima attraverso le parole di Nuray - in una scena da brividi - e poi tramite Samet, nella sua confessione finale.
Quella che (ci) farà al cospetto di un paesaggio - l'ennesimo - che lascia senza fiato, in preda a un'umanità che emerge spazzando via definitivamente ogni scudo. Purificandolo da quell'alone di cattiveria che era stato bravo a cucirsi addosso e permettendo a noi spettatori di comprenderlo, anziché biasimarlo.
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