Challengers - La Recensione

Challengers Poster

Incasellare un film come "Challengers" è un processo complicato, e forse pure inutile e limitante. Il che è un pregio, sicuramente, perché significa che Luca Guadagnino e Justin Kuritzkes - che ha scritto la sceneggiatura - avevano entrambi voglia di dare vita a qualcosa di nuovo, di mettersi alla prova, appunto. Che poi è quello che fanno continuamente i tre protagonisti della loro storia: la Tashi di Zendaya, l'Art di Mike Fast e il Patrick di Josh O'Connor. Sfidarsi a vicenda, sfidare sé stessi, per conoscere i (propri) limiti e trovare un modo per superarli.

Del resto che il tennis fosse una metafora in "Challengers" lo si era capito fin dal trailer, dal poster.
Con Tashi - tennista esuberante e promettente, poi reinventatasi allenatrice a seguito di un grave infortunio - che diventa oggetto del desiderio di una coppia di amici, destinati anche loro a diventare ottimi tennisti professionisti, nonché acerrimi rivali (non solo di campo). Un triangolo amoroso che paradossalmente è indispensabile ai due per crescere agonisticamente, per fare il salto di qualità, mettendo da parte quell'immaturità professionale che tende(va) a fargli trascurare sia la fortuna che il talento che li riguarda(va). Ma un triangolo amoroso, in seconda battuta, che inevitabilmente ha un costo altissimo, ovvero quello di costringerli a mettersi in perenne discussione, massacrarsi emotivamente, facendosi prede di una donna che trova in quell'accesa competizione il nutrimento necessario per soddisfare una personalità assai confusa e intricata. Lo sport c'entra poco, insomma, se non in relazione a come molto spesso riesce a intrecciarsi e a fondersi con la (nostra) esistenza, chiamandoci a rispondere alle conseguenze di ciò che desideriamo e che, quando magari ci viene concessa l'opportunità di metterci le mani, dobbiamo dimostrare di essere in grado di saper gestire, dominare. O avere la maturità di lasciar andare, nel caso in cui ci rendessimo conto di non esserne all'altezza (o che siano tossiche).

Challengers Film

Potremmo definirlo come una scoperta, allora, questo "Challengers". Un atipico coming-of-age che a colpi di racchette, falli (!) e pallettate riesce a sbrogliare l'essenza intrinseca dei suoi protagonisti, restituendogli un futuro decisamente fuori dagli schemi, ma probabilmente più sereno e adatto alle loro corde. E Guadagnino ci arriva dopo una maratona lunga due ore abbondanti, nelle quali fa saltare lo spettatore avanti e indietro temporalmente, per recuperare i pezzi di un puzzle che alcune volte dà la sensazione di averne troppi di pezzi, o perlomeno di aver frammentato eccessivamente certe parentesi. Ma al di là di queste scelte - registiche e grossomodo comprensibili - a restare maggiormente della pellicola, e a tenere alta la tensione è l'interpretazione di un cast azzeccatissimo - dalle facce, alle caratterizzazioni, alle espressioni - che letteralmente sembra incarnare e vivere i personaggi che interpreta. Se si sta al gioco, infatti, e si riesce a venire coinvolti in questa torbida dramedy amorosa è perché a battere e ad urlare forte è la vitalità di coloro che ci passano attraverso, che soffrono e subiscono.

Questa umanità (che è pure vulnerabilità) è l'anima dell'intreccio, il meccanismo necessario a far funzionare l'intera macchina e, forse, uno dei segni di riconoscimento principali del cinema di Guadagnino. Quello che lo ha aiutato a consacrarsi come autore, prima all'estero e poi in Italia.
E questo a prescindere da una critica che nei suoi confronti è destinata rimanere esitante e divisa e da un distacco emozionale che, anche qui, personalmente ho percepito.

Trailer:

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