The Brutalist - La Recensione

The Brutalist Poster Film

Fa uno strano effetto, mettersi a scrivere - a parlare - di un film che, molto probabilmente, non uscirà mai nelle nostre sale. E che, semmai lo farà, sarà in sordina, con segretezza, solo per coloro che coltiveranno la curiosità e il desiderio di volerlo andare a vedere. Colpa - se così la vogliamo chiamare - di un regista (e sceneggiatore) che non ha voluto fare nessun passo indietro, che per dieci anni ha inseguito la realizzazione di una pellicola che, di certo, una volta raggiunta con mano l'occasione di poterla portare a compimento, non sentiva il bisogno di doverla adattare secondo gli schemi di un potenziale pubblico, pretendendo giustamente che fosse più precisa possibile a come se l'era immaginata in testa. Ci stiamo riferendo, ovviamente, a Brady Corbet, un nome al quale difficilmente nel nostro cervello suonerà una campanella, ma che negli ultimi anni - da quando è passato da avanti a dietro la macchina da presa - ha saputo mettersi in mostra come uno dei cineasti americani più interessanti e talentuosi.

Con "The Brutalist" costruisce sicuramente l'opera più ambiziosa (e rischiosa) della sua carriera: un prodotto lungo oltre tre ore e mezza che nella sua durata complessiva conta anche un intermission - una pausa - di quindici minuti, che quando arrivano scorrono come un conto alla rovescia lungo il quale lo spettatore può approfittarne - se vuole - per rifocillarsi e prepararsi al secondo spaccato. Perché la storia da raccontare, in effetti, è lunga, complessa, stratificata (e divisa in 2 capitoli principali). Come una vita intera. Come una vita vera. Sebbene quella dell'architetto László Tóth sia completamente inventata, anzi no, ispirata al romanzo "La Fonte Meravigliosa" di Ayn Rand. E veda un pazzesco Adrien Brody - in odore di Oscar - scampare al dramma dell'olocausto e sbarcare - letteralmente - nell'America degli anni '50 alla ricerca di un futuro migliore, di una rinascita, di quel famoso sogno promesso a tutti gli immigrati. Un riscatto che non può che nascere dal basso, da un cugino che in Pennsylvania si è già reinventato e convertito al cattolicesimo: ora imprenditore di un negozio di mobili che porta il nome di qualcuno che non ha nulla a che vedere con la sua persona (ma che ispira fiducia). Sono le prime avvisaglie di un imbroglio destinato a ingrandirsi, di promesse disattese, di un capitalismo (e di una nazione) che non intende scendere a patti con nessun miraggio, semmai trasformarsi in un incubo e fare amicizia con quei scheletri già presenti che non puoi prendere e (pretendere di) dimenticare. Eppure carriera la fa lo stesso, László, nonostante le umiliazioni e le delusioni ricevute. Il suo genio viene apprezzato (in ritardo) dal magnate Van Buren, il quale gli sovvenziona un progetto gigantesco con l'intento di dedicarlo alla propria madre recentemente scomparsa. Un progetto che permette a László di stringere rapporti con la gente che conta, di ricongiungersi finalmente con la moglie e la nipote da cui era rimasto separato da troppo tempo, ma pure di cadere vittima di un'ossessione che lo distruggerà lentamente e dall'interno.

The Brutalist Corbet

Comincia a sorgere una strana connessione, allora, tra Corbet e il suo protagonista. 
Entrambi hanno una visione, infatti, e intendono portarla a termine, costi quel che costi. 
Per László è questa struttura dal carattere freddo, grigio, teoricamente destinata a diventare centro culturale e di svago (ma con una cappella, sia chiaro), dall'apparenza opprimente, soffocante, pesante. Un'idea chiarissima nella sua mente, precisa al millimetro, nelle misure e nelle ampiezze, nelle stanze e nei materiali, e guai se qualcuno si azzardi ad accorciare o a non rispettare un determinato parametro. Un po' come accade a Corbet col suo "The Brutalist", che avrebbe potuto smussare qualche angolino, far più luce intorno ad alcune facciate, mostrarsi più disposto verso uno spettatore che, invece, viene sì accolto con piacere, ma senza la minima ostentazione di servilismo nei suoi confronti. Corbet che, palesemente, qui si rifà al cinema di Paul Thomas Anderson, tramite uno stile che lo rievoca, lo celebra, lo insegue, e non con l'intento di replicarlo nel senso più furbo del termine, ma con la sensazione di averlo compreso, interiorizzato, amato. E' un paragone che gli fa onore, un paragone positivo, a cui manca esclusivamente la capacità che PTA ha e Corbet ancora no - o non la vuole avere - di essere maggiormente asciutto, diretto, vivace (compiuto?).

László e Brady, quindi. 
Geniali e sensibili. Imperscrutabili e testardi (in senso buono). Orgogliosi e irragionevoli, al punto da mettere a rischio la loro reputazione e la loro faticosa opera pur di tenere il punto. Ma non per una mancanza di senno, bensì per difendere un ideale. Il che cambia tutto. E ce ne accorgeremo (e capiremo meglio) nell'epilogo, sia per quanto riguarda l'uno, sia per quanto riguarda l'altro. Perché seppur discutibile, sconfinata, algida, o comunque imperfetta, l'opera di László e l'opera di Corbet in comune hanno la forza di saper restare, di saper resistere: come dice Brody a un Guy Pierce uguale e identico a Brad Pitt, mentre i due cercano di fare pace e amicizia, seduti a tavola.
Non importa se dal cielo piovano bombe, oppure critiche, se all'improvviso scoppino guerre, o discussioni sterili. Qui ci troviamo di fronte a qualcosa di oggettivamente imponente, di originale, di unico. E che ci piaccia, o no, bisogna ammirarne gli intenti e riconoscerne il trionfo.

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