Lo ha fatto cinque anni fa con "Maternal", un film che hanno visto in pochi, forse in pochissimi, ma che aveva già messo in luce il suo talento, regalandogli diversi riconoscimenti. Ora, con "Vermiglio" quel suono di chi cammina in punta di piedi ha cominciato a trasformarsi lentamente in dei passi veri e propri, passi da gigante, secondo qualcuno, che dovrebbero servire ad attirare l'attenzione dei pochi (o pochissimi) di prima, aggiungendo però (si spera) la curiosità di qualche new entry.
Perché il talento dell'autrice è indiscusso, il punto di vista originale e il mondo in cui ci proietta con "Vermiglio" è uno di quelli lontanissimi, dimenticati, anche se non esattamente malinconici. Malinconico, o comunque affettivo e personale, probabilmente, lo è per la Delpero, la quale ha esplicitamente affermato che la storia che racconta è ispirata a quella della sua famiglia, con un bisogno di divulgazione nato a seguito della morte del padre e del sogno fatto successivamente in cui lui le appariva nei panni di un bambino. Ed è di padri (padroni) e di bambini, ma soprattutto di donne e di figlie, allora, che si finisce a parlare, alla fine, mentre ci si affaccia in un periodo storico che è quello dell'ultimo anno della Seconda Guerra Mondiale: con un soldato ferito appena arrivato nel piccolo paese di Vermiglio, scatenando fermento tra la folla e attirando l'interesse di una delle figlie più grandi del (l'unico?) maestro della zona. Siamo palesemente in un tempo (e un luogo) anacronistico, talmente anacronistico che, spesso, a guardarlo (con gli occhi di oggi, col progresso raggiunto oggi, ideale quantomeno) rischia di suscitare rabbia, incomprensione, nervosismo. Un tempo e un luogo dove a dominare è la povertà e l'ignoranza e dove religione e intelletto - raro, purtroppo - automaticamente spiccano e danno diritto ad uno status, al potere, alla cosiddetta voce in capitolo.
Capita, allora, che questo maestro e padre severissimo - interpretato magistralmente da Tommaso Ragno - detti legge, in casa e fuori, che abbia l'ultima parola sul destino dei suoi figli (dei suoi alunni) - dieci, in teoria, ma alcuni sono morti prematuramente - e che si prenda la facoltà di giudicarli, etichettarli, obbligandoli a dei ruoli e ad un futuro che non è detto siano gli stessi da loro desiderati. Colpa della povertà, si, anche e sicuramente, ma pure di una mentalità chiusa e testarda, secondo la quale l'uomo è colui che deve lavorare e la donna rimanere a casa e badare ai figli. Una mentalità che quando Lucia - la figlia maggiore, innamorata e sposa del soldato ferito (e guarito) - rimane incinta e viene a scoprire che l'amore della sua vita non solo è morto durante un viaggio destinazione Sicilia, ma è stato ucciso pure dalla prima moglie, appena lei ha scoperto del suo secondo matrimonio, automaticamente finisce per condannarla a donna finita, spacciata, destinata a morire in solitudine e con nessun papabile consorte interessato a prendersi più cura di lei e della sua bambina.
Ed è qui che la bravura di Delpero sale in cattedra, perché quando il conflitto - quello reale - di "Vermiglio" esplode, a rimanere ferita è la famiglia intera. La cultura di una famiglia intera. Una famiglia che deve fare i conti con il caos, con l'imbarazzo (cosa dirà il paese?), con la disgrazia e con una prole che, nel frattempo, tra maschi e femmine sta crescendo a vista d'occhio, provocando inevitabilmente interrogativi ulteriori. Diventa quindi una storia di sguardi, di non detti e di segreti famigliari la pellicola, con il destino di queste vite appeso all'ultima parola di un uomo che continua a voler ragionare secondo pensiero comune, ma che comincia a comprendere - o comunque a lottare internamente contro sé stesso per - l'importanza di un'apertura, uno spiraglio diretto verso il futuro. E a spingerlo lungo questa realtà (o considerazione, almeno) saranno proprio le (sue) donne, coloro che, teoricamente, avrebbero dovuto pendere dalle sue labbra, obbedire: a cominciare dalla moglie, che pubblicamente si oppone alle sue cattiverie, e arrivando alle figlie, che mostrano impulsi di autoaffermazione, trovando lentamente forza per rivendicare il proprio ruolo e la loro posizione (nel mondo).
A Venezia l'hanno accostato a quello di Ermanno Olmi, il cinema di Delpero.
E forse l'hanno fatto soprattutto a seguito di alcune scelte artistiche che la vedono affidarsi, per lo più, a volti di attori meno noti (ma bravissimi ed efficacissimi), conservando il dialetto del luogo per gran parte dei dialoghi in scena e adottare un ritmo che non ha paura di prendersi i suoi momenti. Un paragone, quindi, che certamente ha senso e che trova riscontro, sebbene andrebbe preso (e tradotto) comunque con le giuste pinze, per evitare di risultare eccessivamente limitante.
Sia per lei che per noi.
Trailer:
Commenti
Posta un commento