Anni fa - parecchi anni fa - la fortuna mi fece imbattere in una serie tv chiamata "Studio 60 on the Sunset Strip". Non ne sapevo nulla, a riguardo, mai sentita nominare, ma probabilmente un consiglio da parte di qualcuno di cui mi fidavo, o qualche articolo letto di sfuggita, avevano portato a incuriosirmi, accettando di darle una chance. Cominciai a seguire, quindi, la puntata pilota, ritrovandomi in pochi istanti a non riuscire più a staccare gli occhi di dosso da quella storia. Ero incantato da Matthew Perry e da Bradley Whitford, dal loro mestiere di autori televisivi e dall'atmosfera frenetica di questo programma - da salvare - che ogni volta li metteva sotto pressione, spingendoli a performare oltre i limiti della loro creatività. Ancora oggi, quando ripenso a quello show - come direbbero in America - lo faccio con un pizzico di nostalgia, con il ricordo di chi lo ha amato follemente e la speranza di poter, in futuro, riuscire a ritagliarmi un piccolo spazio per riassaporarlo di nuovo. Del resto, nacque da li il mio amore sconfinato nei confronti di Aaron Sorkin.
Breve preambolo per dire che "Saturday Night" - la pellicola di Jason Reitman che racconta dei 90 minuti che precedettero la prima diretta del famoso programma televisivo statunitense, a cui "Studio 60 on the Sunset Strip", all'epoca, si era palesemente ispirato - mi ha riportato a respirare gli stessi momenti, a rivivere quelle stesse dinamiche, facendomi seguire la vicenda con la passione di chi in quel luogo, in quella follia, con quella gente, ci sarebbe voluto stare di persona. E questo perché Reitman (e il suo co-sceneggiatore Gil Kenan) ha scritto l'unico copione possibile, capace di rendere giustizia a quella serata (storica) e a quell'esperimento che, per la rete, era un fallimento annunciato (e voluto), ma per tutti coloro che ci credevano e che ci stavano lavorando ardentemente, appassionatamente e nevroticamente era qualcosa di diverso, qualcosa che avrebbe dovuto cambiare la televisione (americana) per sempre. Ora sarebbe troppo facile mettersi qui a nominare star come John Belushi, Dan Aykroyd, George Carlin e una sfilza di altri nomi che, io stesso, non posso dire di conoscere a menadito. Gente che intorno alla comicità ci ha costruito una carriera, che si è evoluta in un'icona, ma che quella sera dell'11 Ottobre 1975 era semplicemente una scommessa. Un gruppo di cavalli (di razza) prossimi al macello.
L'unico visionario - o forse disperato, ormai - convinto che il (suo) progetto non solo potesse giungere a destinazione, ma che avesse avanti a sé un roseo futuro, era il giovane - protagonista - Lorne Michaels: più che un autore, una sorta di coach, di psicologo improvvisato (per gli altri e per sé stesso), che vaga per gli studi della NBC accerchiato da azionisti che vorrebbero convincerlo a fare un passo indietro - per ripuntare sull'usato sicuro di John Carson - e da comici che non gli danno mai pace, vengono alle mani, distruggono set e spariscono chissà dove. Un circo preda dell'anarchia, figlio di un'idea che non si può spiegare, che non si può descrivere (o forse sì), e quindi prossimo ad andare incontro a un disastro (nazionale) annunciato, se non addirittura nel dimenticatoio. Eppure, la macchina da presa di Reitman lo segue (a mano) con la stessa fame e con la stessa frenesia di un reporter di guerra, con l'entusiasmo di un bambino riuscito a imbucarsi a una festa per adulti (squilibrati) e immediatamente folgorato dai meccanismi (psicologici e di potere) messi in gioco, dalle personalità, le fragilità e il genio di coloro che, tempo una manciata di minuti, si troveranno a scrivere una pagina indelebile dell'intrattenimento mondiale.
Ed è solo immergendoci dentro questo caos, allora, e comprendendo da vicino quanto può esser labile il confine tra successo e fallimento, che troviamo la risposta alla domanda sul perché andava fatto un film come "Saturday Night". Il quale, per certi versi, potrebbe essere etichettato come autocelebrativo, rivolto a una minoranza, ma che dentro di sé invece porta un cuore, un coraggio e una voglia sfrenata di fare e di cambiare il mondo, che la metà basterebbe a salvarci tutti quanti dall'intorpidimento e dalla grigia monotonia.
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