La sensazione che si prova mentre scorrono i titoli di coda di "Emilia Perez" è una di quelle che potremmo definire piuttosto strane. La certezza, infatti, é quella di avere appena assistito a una pellicola straordinaria, ma straordinaria in senso letterale, ovvero fuori dal comune. Il dubbio, invece, è legato al motivo per cui una storia cosi folle, messa in scena in maniera cosi originale e cosi stupefacente, possa lasciare con l'amaro in bocca, lievemente insoddisfatti, come se si potesse - si dovesse? - fare qualcosina di più.
Perché trovarsi di fronte ad un gangster-musical, è, di per sé, già spiazzante ed alquanto bizzarro, ma se ci aggiungiamo il fatto che al centro della vicenda ci sia un pericolosissimo boss del cartello messicano, intenzionato a smetterla con la malavita e ad affrontare una transizione di genere per diventare una donna, allora ci rendiamo immediatamente conto che stiamo entrando in territori a dir poco inesplorati. Ad aiutarlo nell'impresa, c'è pure un'avvocatessa modesta - non per doti, ma per indole - incaricata di trovare il dottore (giusto), organizzare l'intervento e mettere al sicuro la moglie e i figli (due) di lui, prossimo a inscenare una finta morte per sparire per sempre dalla circolazione. Ma, tranquilli, perché questo è solo l'incipit co-scritto e diretto da Jacques Audiard - e tratto dal romanzo Écoute di Boris Razon - perché il bello - a voler esagerare con le parole - verrà solamente a giochi fatti e, teoricamente, finiti: quando la nostalgia del padre che fu, travolge il corpo di colei che da quattro anni è diventata, ormai, l'Emilia del titolo, riportandola dall'avvocato di (una sorprendente e canterina e in odore di nomination) Zoe Saldana - ora ricchissima e in carriera - e chiedendole il favore di mettere in atto un secondo piano (rischiosissimo) con il quale tornare in Messico e riavvicinarsi alla prole.
Come è lampante, quindi, non sono gli spunti a mancare ad "Emilia Perez", che ha voglia di azzardare, di trascinare lo spettatore in uno stato di fermento, di ironia, di curiosità vivace (e verace). Casomai è la gestione delle idee, delle svolte (narrative) a lasciare un po' perplessi, quel suo voler prendere deviazioni interessanti sulla carta, ma poi tornare sui suoi passi, o comunque gestirle con la mentalità di chi continua a rimanere attratto dall'usato sicuro, canonico. E quindi, se nella vita precedente Emilia era Manitas Del Monte, colui che faceva del male e assassinava a sangue freddo, ora che è in pace con i suoi desideri e con sé stessa, cerca di riequilibrare i peccati, occupandosi di beneficenza, di persone scomparse. Iniziativa che le permette di riemergere mediaticamente e di ricostruire un impero - positivo, stavolta - a cui fare capo, ma, soprattutto, di illudersi in merito alla possibilità di continuare a fare il padre, mascherato da zia, con in casa una (ex) moglie, rimasta sentimentalmente legata (e affascinata) al mondo criminale. Un insieme di cliché che minacciano moltissimo - non lasciano scampo, praticamente - le derive drammatiche a cui Audiard intende approdare, e nei quali forse (ci) si adagia anche un pochino, smorzando l'atmosfera di mistero e stupore seminata nelle (ottime) premesse e permettendoci di prevedere dov'è che (si) andrà a parare.
L'impressione, dunque, è che ce la metta tutta per sgonfiarsi, la pellicola.
Che si accontenti del suo essere visivamente pregevole, a tratti incredibile e ritenga non necessario fare quel passettino in avanti che avrebbe potuto consentirle di restare a lungo scolpita nella (nostra) memoria. Le scelte di una seconda parte meno audace (pigra?), meno appassionante (freddina), sommate ad alcune opportunità messe a disposizione e non colte, vanno a ridimensionare leggermente la sua portata, garantendogli, sì, lodi meritate, ma ad ogni modo contenute.
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