A un certo punto, ne "Il Gladiatore II", non appena l'Annone di Paul Mescal viene acquistato come schiavo dal perfido Macrinus di Denzel Washington, c'è un corpo a corpo nel quale vengono messe alla prova le sue abilità da lottatore, di soldato. Una prova nella quale Annone rifiuta di indossare dei guanti armati di spuntoni che il suo avversario - il braccio destro di Washington - non intende togliere per battersi alla pari con lui. E durante questa scazzottata - dalla quale chiaramente Annone uscirà vittorioso - prende dei pugni in faccia che avrebbero dovuto quantomeno sfregiarlo, o tagliarlo in viso, anziché lasciarlo con un leggerissimo arrossamento sulla guancia.
È un momento stonato, estraniante, in cui lo spettatore non può far a meno di chiedersi cosa stia succedendo e come mai le cose non vadano come dovrebbero andare.
Eppure è proprio qui che, paradossalmente, riusciamo a capire alla perfezione la natura e il tipo di dimensione che vuole occupare questo inaspettato - e non richiesto - sequel, che si accontenta di farsi riproduzione in plastica dell'originale, al netto di inevitabili variabili e di intrighi politici che sembrano rimandare alla strettissima attualità.
Eppure è proprio qui che, paradossalmente, riusciamo a capire alla perfezione la natura e il tipo di dimensione che vuole occupare questo inaspettato - e non richiesto - sequel, che si accontenta di farsi riproduzione in plastica dell'originale, al netto di inevitabili variabili e di intrighi politici che sembrano rimandare alla strettissima attualità.
Sono tanti, troppi, infatti, gli aspetti in comune che legano Annone e Massimo.
La sua parabola è praticamente un ricalco, una copia carbone di quella precedente, sporcata il poco che basta per non risultare estremamente sputata e palese. E, questo, a prescindere dalle trovate di sceneggiatura che - senza spoilerare - andranno poi a unire indissolubilmente i (destini dei) due personaggi, per gloria, per sangue e per amore. Così, calcolando l'enorme distanza che lo divide dal suo capostipite, verrebbe da dire che Ridley Scott abbia realizzato un vero e proprio remake della sua creatura. Un remake aggiornato e calibrato secondo gli schemi dei tempi moderni, nello specifico secondo gli schemi del cinema dei tempi moderni. Un cinema che ha perduto interesse, pubblico, cura, e in cui non vale la pena, ormai, spremersi troppo, né dal punto di vista narrativo, né dal punto di vista estetico: tanto la soglia dell'attenzione resta comunque bloccata ai minimi storici. Conta lo spettacolo, adesso, lo spettacolo folle, esagerato, quello che a furia di voler superare sé stesso si è fatto baracconata: e "Il Gladiatore II" di baracconate ne mette in scena a bizzeffe, non appena la macchina da presa mette piede all'interno dell'arena. A quel punto scimmie infuriate, rinoceronti e squali (sì, squali!) vengono liberati e sono pronti a darsi il cambio per trasformare il peplum di partenza in fantascienza grottesca e anacronistica, mandando all'aria ogni flebile aspettativa nei confronti di una pellicola che neppure ci prova, allora, a tenere testa alle origini. Del resto, Mescal non è Crowe e la sua presenza scenica non può scatenare quegli indimenticabili picchi di fomento, scricchiola, anzi, restando in piedi a fatica. Specialmente quando si ritrova a dover dividere l'inquadratura con Washington, unico vero, grande leone - anche letteralmente - capace di ruggire, di graffiare e trasmettere elettricità. Ed è a quella che bisogna aggrapparsi per resistere fino alla fine, perché l'epica è carente e i richiami shakespeariani del suo Macrinus sono boccate di ossigeno puro, efficaci a contrastare il nonsense di un'operazione svogliata e distratta.
La sua parabola è praticamente un ricalco, una copia carbone di quella precedente, sporcata il poco che basta per non risultare estremamente sputata e palese. E, questo, a prescindere dalle trovate di sceneggiatura che - senza spoilerare - andranno poi a unire indissolubilmente i (destini dei) due personaggi, per gloria, per sangue e per amore. Così, calcolando l'enorme distanza che lo divide dal suo capostipite, verrebbe da dire che Ridley Scott abbia realizzato un vero e proprio remake della sua creatura. Un remake aggiornato e calibrato secondo gli schemi dei tempi moderni, nello specifico secondo gli schemi del cinema dei tempi moderni. Un cinema che ha perduto interesse, pubblico, cura, e in cui non vale la pena, ormai, spremersi troppo, né dal punto di vista narrativo, né dal punto di vista estetico: tanto la soglia dell'attenzione resta comunque bloccata ai minimi storici. Conta lo spettacolo, adesso, lo spettacolo folle, esagerato, quello che a furia di voler superare sé stesso si è fatto baracconata: e "Il Gladiatore II" di baracconate ne mette in scena a bizzeffe, non appena la macchina da presa mette piede all'interno dell'arena. A quel punto scimmie infuriate, rinoceronti e squali (sì, squali!) vengono liberati e sono pronti a darsi il cambio per trasformare il peplum di partenza in fantascienza grottesca e anacronistica, mandando all'aria ogni flebile aspettativa nei confronti di una pellicola che neppure ci prova, allora, a tenere testa alle origini. Del resto, Mescal non è Crowe e la sua presenza scenica non può scatenare quegli indimenticabili picchi di fomento, scricchiola, anzi, restando in piedi a fatica. Specialmente quando si ritrova a dover dividere l'inquadratura con Washington, unico vero, grande leone - anche letteralmente - capace di ruggire, di graffiare e trasmettere elettricità. Ed è a quella che bisogna aggrapparsi per resistere fino alla fine, perché l'epica è carente e i richiami shakespeariani del suo Macrinus sono boccate di ossigeno puro, efficaci a contrastare il nonsense di un'operazione svogliata e distratta.
I combattimenti, il sangue, i cadaveri si fanno distrazione, dunque, mentre l'elemento più interessante diventa l'inedita sottotrama politica che lentamente si fa largo assumendo, via via, sempre più spessore e importanza. Il personaggio di Macrinus, sfruttando le sue innate doti da calcolatore e da manipolatore, partendo dal basso riesce a intimidire, a guadagnare posizioni, scampoli di potere, scalando la piramide fino a sedersi al fianco di chi conta per davvero, tirandone i fili. L'uomo (più) scaltro, l'uomo (più) intelligente che sa muoversi benissimo tra imperatori e leader talmente arroganti, stupidi e immaturi da non accorgersi nemmeno di essersi trasformati in pedine di una scacchiera, pronte da mangiare. Una rappresentazione che ricorda, con un minimo di immaginazione, la recente ascesa di Elon Musk nel nuovo governo Donald Trump: visto da moltissimi, in prospettiva, come un pericolo assai maggiore di ciò che appare in superficie. E chissà se questa novità, se quest'unico spunto di freschezza inserito dentro una trama che sa di minestra riscaldata, sia frutto di una casualità fortunata, o se parte di un intenzione autoriale con la quale Scott voleva fotografare il suo sguardo (politico) sull'America e sul mondo(tutto) reale.
Di certo, non basterà un discorsetto motivazionale a risolvere le derive pessime imboccate dalla politica, che sia quella moderna o dell'Antica Roma. L'appoggio e l'unione che troverà Annone - poi ribattezzato col suo vero nome che non sveleremo - sembra appartenere tanto al lato fantascientifico della pellicola - per come arriva, e per la debolezza con cui riecheggia - e serve a Scott per rimettere in circolazione quel sogno di cui si parla, che è di Marco Aurelio e quindi di Roma, ma maggiormente Americano. L'utopia di un posto a misura d'uomo dove chiunque è accolto, considerato e può permettersi di vivere in serenità e pace.
Belle parole, belle speranze, ma oggettivamente, ora come ora, sarebbe più facile immaginare un terzo capitolo de "Il Gladiatore", chiesto a gran voce dal popolo, galvanizzato ed esterrefatto dalla visione di questo film.
Belle parole, belle speranze, ma oggettivamente, ora come ora, sarebbe più facile immaginare un terzo capitolo de "Il Gladiatore", chiesto a gran voce dal popolo, galvanizzato ed esterrefatto dalla visione di questo film.
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