Una dissolvenza ad aprire e una data segnalata in basso, ci informano che Maria Callas ci ha appena lasciato. E' il 16 settembre del 1977 ed è da qui che Pablo Larraín decide di partire, facendo poi un balzo all'indietro di sette giorni e raccontando l'ultima settimana di vita della Diva.
Come fu per "Jackie", e come fu per "Spencer", allora, il suo approccio al biopic è ancora una volta unico, meraviglioso, giusto. L'unico possibile, forse, quando si vuole evitare di cadere nella trappola del compitino scolastico - tipico di un prodotto televisivo - ο, peggio ancora, in quel risultato agiografico che tutto sembra, fuorché un ritratto realmente credibile ed affidabile. La Maria di Larraín, invece, è nel suo momento peggiore: non sale più sul palco da anni per problemi di voce (e fisici), prende quantità smisurate di farmaci e saltuariamente (o spesso) delira. Non è più Callas, insomma, ma una personalità contorta, tormentata dal passato - quello violento, adolescenziale, e quello di un pubblico che l'applaudiva adorante - e che si rifugia in esso, nel tentativo di sopravvivere a un presente sostenibile solo nella speranza di una guarigione. Non c'è nessuno al suo fianco: nessun uomo, nessun amante, nessun parente o amico. Solo il maggiordomo Ferruccio e la governante Bruna, i quali si prendono cura di lei, a volte, agendo come farebbero una madre e un padre con la loro figlia. E quindi sconfinando dai ruoli, ribaltando le gerarchie, se necessario: opponendosi ai comportamenti autodistruttivi e depressivi di una donna che per loro, evidentemente, ormai è diventata qualcosa di più che una semplice "datrice di lavoro".
E per tratteggiarne un ritratto accurato, integrale, capace di contenere la grandezza dell'icona che sta scomodando - abbracciandone fasti, relazioni e ferite profondissime - Larraín si appoggia alla troupe televisiva, in realtà inesistente, che solo Maria vede - e trattiene - perché sente di averne bisogno, perché percepisce che è arrivato il momento di cominciare a tirare le somme, svelare i (suoi) segreti, fare chiarezza (dentro di lei). In questo modo la pellicola costruisce un escamotage col quale muoversi a piacimento lungo il corso del tempo, utilizzando flashback e alternando passato e presente per ricostruire la storia essenziale del personaggio e della donna. Tra elegantissime immagini in bianco e nero - il privato - e immagini a colori, degne dei migliori dipinti, - e dedicate alle esibizioni e al triste presente - Larraín riesce così a catturare perfettamente l'umanità e la fragilità di Maria e, insieme ad essi, pure la generosità, la forza e la determinazione. Si sofferma sull'amore conflittuale per il canto - vitale e logorante - e sul nutrimento che le dava un pubblico, forse, fin troppo ingrato nei suoi confronti, senza tralasciare quel paradosso sentimentale che non le ha mai permesso di diventare la prima donna di qualcuno (la scena con Onassis sul letto di morte è folgorante).
Un viaggio tra i ricordi che è quasi un privilegio, quindi, e nel quale perdersi è sublime, accompagnati da parentesi riservate, confessioni intime e aperture spirituali: che permettono la creazione di momenti pazzeschi e commoventi, come quello dell'imboscata giornalistica, o della partita a carte. Un abitudine nel cinema di Larraín, che si conferma tra i migliori autori in grado di maneggiare eredità umane articolate e complesse, con una sensibilità e un'intelligenza uniche. Esaltando e tirando fuori il meglio da ogni suo interprete, peraltro: come accade qui con un'Angelina Jolie strepitosa (pure nel canto), abile a oscurare la sua figura e la sua aurea di celebrità per evitare ogni interferenza che avrebbe potuto intralciare la credibilità del suo casting con la parte.
Trailer:
Tutto bellissimo, accurato, perfetto... niente da dire sulla confezione e sulla cura dei dettagli. Jolie bravissima. Però, boh... onestamente preferisco il Larraìn politico, impegnato, come in "Post mortem", "NO", "Neruda", "El Conde". Questi ritratti algidi e freddi di donne del '900 li trovo abbastanza fini a se stessi (e pure un po' noiosetti) aldilà della pregevole fattura.
RispondiEliminaA me piace sempre, ma la visione di "Il Club" penso che non la scorderò mai.
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