Nosferatu - La Recensione

Nosferatu Poster Ita

Forma e sostanza.
Riflettevo su questi due concetti, mentre scorrevano le immagini del "Nosferatu" di Robert Eggers. Ci riflettevo perché più lo guardavo, più seguivo l'avanzare della storia e più sentivo nelle orecchie la voce di Eggers che mi ripeteva: "Guardami, guarda come sono bravo!". Che poi è vero, è, Eggers è bravo. Bravo a creare le atmosfere, a imprimerle di carattere, bravo a rendere vivida l'esperienza visiva. 
Ma, appunto, questo è un lavoro che riguarda la forma. Il problema arriva quando c'è da trovare la sostanza.

Perché nel suo "Nosferatu" la sostanza è una sconosciuta, l'assente ingiustificata: dimenticata, come se si potesse farne a meno, come se ci si potesse accontentare solo delle suggestioni (gotiche). Epperò, quando ti carichi sulle spalle una storia del genere, entrata così tanto nell'immaginario comune, è probabile che puntare solo sulla forma non possa bastare. O, magari, può bastare a te autore, ma non ad un pubblico che, a questo punto, ha tutte le ragioni di pretendere e di voler vedere qualcosa di nuovo, di audace, di straordinario. E no, non è sufficiente limitarsi ad aggiornare le versioni di Murnau e di Herzog, togliendo il ruolo da protagonista a Thomas Hutter e passandolo a sua moglie, alla giovane Ellen. Trasformando il suo personaggio in una donna dai poteri mistici, speciali, attratta dall'oscurità e capace quindi di evocare e di congiungersi al male attraverso il desiderio, il piacere, e diventando così lei stessa artefice della maledizione e della peste mortale che si abbatterà poi sulla città di Wisborg. Una rilettura moderna - al passo coi tempi - alla quale però non si dà grande seguito e che rischia anzi di piacersi un po' troppo, di dimenticare che alla base di tutto, specialmente quando vai a toccare una storia trita e ritrita - conosciutissima, specie da chi ha deciso di venire a rivederla - deve esserci coinvolgimento, mordente. E in questo caso anche orrore. Tanto. E deve essere imprescindibile, in particolare se si decide di mantenere intatta la corsia, di non cambiare mai strada, di restare fedeli (al capostipite).

Nosferatu Egger

Sembra quasi aver fatto male i conti Eggers. Non aver capito che da lui, che dal suo "Nosferatu", il pubblico si aspettava qualcosa di sconvolgente, di spaventoso. Ma non (solo) a livello visivo, bensì esperienziale. Un prodotto che fosse in grado di far rabbrividire, che spingesse al massimo sul pedale del genere di riferimento, ristrutturando l'icona di un archetipo che, altrimenti, non valeva neppure la pena andare a scomodare. Perché se lo scopo doveva essere il mero esercizio di stile, dimostrare di saper fare egregiamente un compitino, concedendosi il lusso di un vezzo qui e un vezzo lì, tanto valeva evitare proprio lo sforzo. Ed è paradossale, tra l'altro, rendersi conto di quanto tutto ciò sia assolutamente volontario, preparato a tavolino. Perché di occasioni per infilarsi nella direzione giusta, per adempiere al fine più intelligente che un progetto così poteva imporsi, Eggers ne trova molteplici lungo il suo cammino. A cominciare da un Conte Orlok che tenere in penombra fino al terzo atto - alla scena finale - è sinonimo di spreco, di volersi dare la zappa sui piedi. La parola d'ordine, infatti, doveva essere "mostrare", stavolta, e farlo con generosità, ad ogni costo. E l'intera costruzione avrebbe dovuto ruotare attorno a questo principio, a questa strategia: non è un caso, del resto, se la scena migliore, quella che plausibilmente non scorderemo di questa pellicola, è la possessione di Ellen (prologo compreso).

Uno dei (rari) momenti in cui Eggers compie l'atto (sacrilego?) di tradire lo script originale, dove mostra - appunto - l'orrore puro, non gioca a nascondino e si lascia finalmente andare, dimostrando(ci) che cosa poteva diventare la sua creatura se avesse badato meno alla forma e più alla sostanza. Ed è il rimpianto maggiore, ingigantito dalle oltre due ore nelle quali a vincere è sostanzialmente la noia, la freddezza, l'assenza di sussulti e il non provare a sporcarsi le mani. 
E forse, allora, l'unica vincitrice di tale disfatta può considerarsi la giovane Lily-Rose Depp, che nell'interpretare questa donna sopra le righe, in costante attrito con le regole di un mondo-maschile inetto, arrogante e stupido, dimostra di avere grande talento e potenziale.
Chissà, magari addirittura più del padre.

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