Digitando il nome di Lee Miller su internet, il primo risultato che appare in elenco è la foto di questa donna seduta dentro una vasca da bagno.
La seconda, per quanto mi riguarda, è che, la donna, somiglia dannatamente a una famosissima attrice.
Kate Winslet.
E lo dico, non per sottolineare la grande intuizione di casting avuta per la pellicola (d'esordio) diretta da Ellen Kuras (in principio direttrice della fotografia), ma perché anche Ellen Kuras, un giorno, in libreria, prendendo in mano un libro biografico sulla vita di Lee Miller, osservando una foto ha pensato fosse dannatamente simile a Winslet, al punto da spedirgliene una copia. Da li, le due, hanno cominciato a intavolare l'idea di realizzare un progetto cinematografico, il quale però, per vedere la luce - colpa di una produzione dal budget limitato - ha richiesto all'circa dieci anni. Ma, al di là degli aneddoti e delle difficoltà di realizzazione, ora vi starete chiedendo, magari: "Si, ma chi è Lee Miller?". Se non avete ancora cominciato a leggere la sua pagina Wikipedia, incuriositi dalla quella foto della donna nella vasca, posso dirvi che Lee Miller - che neanche io conoscevo - era una modella che ha deciso poi di passare dietro la macchina fotografica. Una carriera che le ha permesso di mettersi in mostra e di avere a che fare con artisti importantissimi - tra cui figura anche Pablo Picasso - e che in seguito allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, si reinventò fotoreporter per Vogue, documentando gran parte della tragedia dell'Olocausto. E quella foto, quella di lei nella vasca, è stata scattata dal suo collega David Scherman - qui un bravissimo Andy Samberg - a casa di Hitler, a pochi giorni dalla sua caduta. Quello che vedete, infatti, è il bagno che utilizzavano il Führer ed Eva Brown. Ecco, il motivo della sua (eterna) popolarità.
La pellicola - che si apre poco prima dell'inizio del conflitto - vuole dunque celebrare una figura che, specie per chi ha a che fare col mestiere del fotoreporter, è ancora oggi punto di riferimento, leggenda. E, chiaramente, lo è anche dal punto di vista femminile - e qui la Winslet produttrice sale in cattedra - visto come Miller era solita disobbedire alle regole - patriarcali - dell'epoca ed imporsi, agendo in autonomia e tenendo testa a chiunque osasse mettersi tra lei e il suo lavoro (la sua vocazione). Eppure, preso come biopic questo "Lee Miller" appare lo stesso piuttosto scolastico, convenzionale, limitato (?) privo di quei guizzi particolari che avrebbero dovuto e potuto esaltarne lo spirito, la venuta. Per certe dinamiche, fa tornare alla mente il "Civil War" di Alex Garland, il quale però vince nettamente il duello, forte di una maggiore libertà artistica e di una distopia capace di sconfinare con l'attualità. Forse aumentare l'accento sulla Miller privata - non lato donna, ma lato madre - avrebbe contribuito un minimo ad integrare ombre (reali) su un ritratto e su una personalità divenuta assai sfuggente, che sotto la direzione di Kuras e di una sceneggiatura da rivedere, continua ad apparire, invece, un po' troppo bidimensionale e glorificata. Incastrata più nel mito che nelle sue (umane) fragilità.
Perché nel finale qualcosa si intuisce, a prescindere dal fiacco twist che Kuras utilizza per rimarcare tale ambivalenza e sbilanciamento. La Miller depressa, alcolista e indecifrabile persino per il figlio, a causa di quell'esperienza traumatizzante, è uno spaccato importante che manca come ossigeno al racconto e che, per quanto difficilmente ricostruibile in forma tangibile, poteva sostenere la causa pure se in veste illusoria.
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