All'inizio la sensazione è un po' straniante, confusa.
Vuoi perché Bailey - la giovane protagonista - somiglia tanto a un bambino, più che a una bambina, vuoi perché suo padre somiglia molto a un fratello maggiore, più che a un genitore e vuoi perché sicuramente Andrea Arnold su questo gioco di apparenze un po' si appoggia, non mettendo immediatamente in chiaro una situazione che è assai complessa.
O meglio, non mettendola in chiaro a schiaffo e a parole.
Il quadro della periferia inglese dove la piccola Bailey (e non solo lei) è costretta a vivere - e a crescere - infatti poi ce lo facciamo da soli, piano piano, ed è un quadro triste, tragico, pericolosissimo. A riempirlo sono praticamente gli emarginati della società, quella composta dai più sfortunati, quella a due passi da Londra, rassegnata a una (a)normalità che vede genitori (giovanissimi) e figli abbandonati a sé stessi e a un destino che non gli lascia scampo. Bisogna lottare quando si nasce in questa zona situata a nord del Kent, e bisogna farlo come fanno certi animali. Bisogna farlo per sé stessi e, se ci si tiene, anche per gli altri, per la comunità. Bisogna imparare a diventare grandi subito, insomma, da un giorno all'altro, e rendersi conto che il privilegio della felicità, così come viene sponsorizzata generalmente, è un'utopia, un miraggio irraggiungibile, al quale sarebbe meglio rinunciare all'istante. Chi nasce li, abita in case popolari dimenticate e fatiscenti, è circondato da fratellastri e sorellastre che impara presto a proteggere e si abitua rapidamente a contesti - di violenza, di follia (che sia a sfondo romantico o meno) - che non si augurerebbero nemmeno al peggior nemico, o quasi. Tant'è che Bailey non sa più come fare, mentre cerca di destreggiarsi tra due fuochi: quello di un padre (con due figli a 28 anni) che ha deciso di sposarsi con una ragazza-madre di cui sa poco o nulla e quello di una madre (con altri figli a carico) che non riesce a liberarsi di un compagno rabbioso e aggressivo.
Non c'è speranza, dunque, in questo (spaccato di) mondo (reale) che Arnold ci piazza davanti agli occhi. Al massimo la speranza è nostra, ipotetica, affidata unicamente nelle mani di queste povere (e sempre troppo piccole) anime abituate o vincolate a vedersela da soli, a compiere la scelta migliore, giorno dopo giorno: il che non significa per forza che poi ci riescano. E, allora, ci sta che la pellicola ad un certo punto decida di fare i conti con qualcosa di nuovo, di inatteso. Di tradire la cruda realtà con un pizzico di favola. Quella che inizia a fari spenti non appena fa capolino il Bird del titolo, un uomo adulto tornato da quelle parti per ritrovare i genitori da cui un giorno si è allontanato senza più fare ritorno. Lo davano per morto. Tutti. Invece eccolo li, un po' spaesato, un po' enigmatico, un po' sognante. Bailey lo vede e lo allontana impaurita, poi tra i due nasce lentamente una sorta di amicizia, un'alleanza, forse perché a Bailey vedere Bird dalla sua finestra, ogni notte, restare in bilico sul terrazzo di un edificio, mentre lei è nel suo letto cercando di dormire, incuriosisce e affascina.
E affascina anche noi. Impazienti di trovare un senso, un lieto fine a una storia che, tendenzialmente, lieto fine sembra poterlo avere solamente attraverso una fuga, o un intervento divino. Quello che, intravediamo, più o meno, trovando un pizzico di pace interiore, nella chiusura tanto catartica, quanto surreale della pellicola. Con Bird e Bailey che dopo essersi aiutati a vicenda si scoprono simili, speciali, protetti dallo spirito impercettibile degli animali guida. Una consapevolezza che permette a entrambi di poter guardare al futuro con maggior serenità e con quel pizzico di liberazione, generata anche da una famiglia allargata, improvvisamente ora meno ingombrante e disunita.
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