Alpha - La Recensione

Alpha Poster Film

Appena uscito dalla proiezione di "Alpha" l'ufficio stampa mi ha chiesto, cortesemente, di compilare un foglio, inserendo un commento a caldo e specificando in che modo avessi recepito il film: se positive, negative, o mixed.
Mai come in quell'istante, la parola mixed mi è sembrata più adatta, considerando che stavo ancora processando e cercando di capire che tipo di storia avessi visto e, insieme, riflettendo su alcuni punti che, evidentemente, dovevo ancora unire per avere davanti il quadro completo.

Perché quella scritta e diretta da Julia Ducournau - la stessa dell'insopportabile "Titane", Palma d'Oro incomprensibile - è una di quelle storie in cui vengono seminati degli indizi che, se non li cogli al volo, o non riesci a decifrarli in tempo reale - come è capitato a moltissimi dei presenti in sala, ho scoperto - può succedere che poi ti ritrovi a rincorrere, a farci a botte, a rimuginarci su. E io ci ho dovuto rimuginare parecchio su "Alpha" che, ad un certo punto, stavo quasi per bollare come un fratello di sangue più sopportabile di "Titane", ma che poi, andando a ritroso e ripetendo a mente alcune battute presenti in un paio di scene chiave, di colpo ho cominciato a rivalutare e a vedere con altri occhi, quelli giusti. E la motivazione, di base, è che il racconto contiene diversi livelli di lettura, livelli di lettura nei quali è necessario scendere per stare al passo, farsi travolgere, e che si aprono con questa epidemia, trasmissibile col sangue, che terrorizza la gente, perché trasforma gli infetti in delle statue di marmo. Così, quando una madre-single, nonché dottoressa, scopre che la figlia tredicenne si è lasciata tatuare una "A" sul braccio da non-si-sa-chi a una festa, con un ago dalla discutibile provenienza, la paura prende il sopravvento, colpa anche di un fratello - lo zio della ragazzina, un Tahar Rahim spaventoso per quanto peso ha perduto - tossicodipendente che ha già creato scompiglio e danni incalcolabili all'interno della famiglia.

Alpha Ducournau

Non lo specifica, Ducournau, ma lo lascia intravedere (dai telefoni, dalle due settimane necessarie per le analisi mediche): siamo all'incirca intorno agli anni '90, per cui è palese che il virus di cui parla, faccia riferimento all'AIDS. Eppure, non è questo il punto. Casomai una partenza, un pretesto utile a riaccendere i demoni di una famiglia e di una madre e sorella - la bravissima Golshifteh Farahani - che sta cercando di opporsi a quella che, da quanto ci viene accennato, è una sorta di maledizione ereditaria. Però, i piani temporali si intrecciano, si mescolano e diventa sempre più difficile capire quale sia il sogno (tornando alle scene chiavi), quale sia la realtà e ciò che, invece, è figlio di suggestioni e di allucinazioni. Un disordine che la Ducournau crea volontariamente, perché le serve per impartire maggior potenza emotiva e disperazione (troppa?) alla sua pellicola e ad inserire soluzioni visive notevolissime e strazianti con le quali spesso, ma sarebbe meglio dire per gran parte della visione, riesce ad essere disturbante, a creare malessere, terrore (la scena della schiena di Rahim, non credo riuscirò a scordarla).

E, quindi, una volta assorbito il carico viscerale, mentre scorrono i titoli di coda, con un fiatone mentale che ancora è lì a rincorrere le immagini, gli indizi e i sottotesti sparsi, ci si rende conto che "Alpha", in fin dei conti, non è altro che un film che racconta di amore profondo, del panico che ciò può provocare quando questo amore viene minacciato e messo in pericolo dal mondo esterno e da quei fantasmi, a volte tutti nostri, che prima o poi bisogna aver la forza di esorcizzare e di spazzare via. Quantomeno per il bene di chi merita di poter godere a pieno della sua giovinezza e spensieratezza.

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