Mettiamo subito in chiaro una cosa: chi scrive, non è fan di Bruce Springsteen.
Nello specifico, non sono tra coloro che mettono il Boss sul piedistallo, non lo ascolto con frequenza, anzi, conosco pochissimo sia lui che le sue canzoni, per cui ho approcciato il film di Scott Cooper come farebbe un classico spettatore neutro, ovvero con la curiosità di scoprire qualcosa in più sul personaggio e sulla sua storia. E questa storia – che non è un biopic convenzionale, ricordiamolo: non racconta chi è Springsteen, ma un periodo specifico della sua vita – è legata al passato, all’infanzia e alle scorie che restano dentro, a prescindere da chi diventiamo e dal successo che riusciamo a racimolare. Perché in “Springsteen: Liberami Dal Nulla” si parla di depressione, di una depressione che nessuno riesce (vuole?) a vedere – tantomeno il diretto interessato – e che influisce sulle regole di un’industria – quella musicale – che dopo le vette raggiunte da “The River” chiede a Springsteen di non sprecare il flusso di quella scia e di realizzare immediatamente un nuovo album pieno di hit radiofoniche e di pezzi elettrizzanti. Nulla a che vedere con quelli dark che, invece, cominciano a uscire dalla sua testa, influenzati dalla visione di “La Rabbia Giovane” di Terrence Malick che, in qualche modo, è come se riaprisse (se sbloccasse) nella sua testa ricordi famigliari complicati e drammatici, dei quali porta ancora addosso le scorie. Lui lo chiama veleno ereditario, ed è la paura di diventare uguale a un padre tendenzialmente violento e ora malato (mentale), con il quale da sempre ha avuto problemi a instaurare un legame, e che adesso lo esorta a fuggire da qualunque relazione sentimentale rischi di di diventare un minimo seria e stabile: come accade nella sottotrama romantica, con la giovane Faye, presente nella storia.
Eppure, nessuno intorno a lui sembra rendersi conto di cosa stia succedendo. L’unico a sostenerlo – non per cognizione di causa, ma per sincera amicizia – e ad assecondarlo (e a proteggerlo), infatti, è il Jon Landau di Jeremy Strong, un personaggio bellissimo, perché incorruttibile e leale nel credere in Springsteen come artista, ma innanzitutto come uomo: lottando e assumendosi ogni responsabilità (e azzardo) davanti a scelte che, forse, non condivide, ma di cui percepisce la profondità e l’importanza. Di fatto, allora, “Springsteen: Liberami Dal Nulla” ci racconta la genesi di un album – che sarà Nebraska – la cui nascita è andata contro corrente, ribellandosi alle logiche del mercato per non tradire il processo artistico reale, di chi lo stava scrivendo, e aveva bisogno proprio di quel tipo di autenticità per guardare in faccia ed esorcizzare (in parte) un malessere effettivo. Quello che Jeremy Allen White restituisce in maniera piuttosto verosimile nei panni di Springsteen, incarnando sporadicamente il mito della rockstar – sul palco lo vediamo di rado – e assai di più quelli del poeta maledetto, schivando, per fortuna, buona parte delle trappole dei cliché.
Tratto dal libro di Warren Zanes “Liberami Dal Nulla. Bruce Springsteen e Nebraska”, quello di Cooper si dimostra, quindi, prodotto dedicato potenzialmente ad ogni genere di pubblico, perché affronta temi universali, da non sottovalutare, e accessibili a chiunque. Un’operazione, nel complesso, positiva, pur non potendo contare – per forza di cose e di scelte – su quella portata gigantesca che, forse, qualcuno (o più di qualcuno) si sarebbe aspettato.
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