La mente geniale di cui parla il titolo non somiglia esattamente a quella di James Mooney, il furfante - figlio di un giudice - appassionato d'arte (o così dice, almeno, ma sicuramente esperto) che, anziché cercarsi un posto stabile e avere cura della moglie e dei due figli - come vorrebbero la madre e il padre - preferisce andare in giro per musei a rubacchiare oggetti per poi rivenderli a qualche ricettatore (tirando anche dentro la sua famiglia, a volte). Gioca col fuoco, si approfitta delle distrazioni e della fiducia del personale delle strutture (a volte da licenziare in tronco): un po' pochino per mettere su un grande colpo. Eppure, lui ci prova lo stesso. Tira in ballo due pseudo-amici - che poi diventeranno tre, quando uno dei due rinuncia all'ultimo - e pianifica di rubare quattro quadri di Arthur Dove in pieno giorno, davanti al pubblico.
Altro che mastermind.
Il paradosso è che non è neppure la credibilità degli eventi, il problema principale di "The Mastermind". Perché se Kelly Reichardt avesse azzeccato il tono giusto, quello comico, grottesco, figlio dei fratelli Coen, magari, una storia del genere avrebbe sicuramente generato un'attrazione maggiore. Invece, specialmente nella prima parte - quella in cui questo grande colpo fallisce miseramente, costringendo il James Mooney di Josh O'Connor (molto abile a lavorare in sottrazione) a mettersi in fuga, perché ricercato dalla polizia - la pellicola si prende fin troppo sul serio, usa un timbro eccessivamente compassato, minimalista, generando un'ambiguità tra ciò che sta raccontando e il come lo sta facendo, che lascia quantomeno perplessi. Una situazione che, senza ombra di dubbio, migliora nella sua seconda parte, quella in cui il dinamismo di sfuggire a una cattura sempre più prossima e il dramma (?) di dover lasciare indietro moglie e figli, dona a "The Mastermind" quella patina emozionale che gli era mancata e di cui aveva disperatamente bisogno. La personalità complessa di Mooney esce maggiormente fuori e lo vediamo vagabondare ed essere allontanato da chiunque per lui avrebbe dovuto essere un porto sicuro.
Ed è, forse, il lato più interessante dell'opera di Reichardt, quello in cui cerchiamo di scrutare e di intercettare, in questo personaggio, apparentemente egoista e bravissimo a manipolare persino i suoi cari, se veramente, raggiunto ormai il grado di solitudine assoluto, dentro di lui c'è un cuore. Se quelle telefonate al figlio - spettatore inaspettato di una delle scene più sconvolgenti, ma pure migliori - e alla moglie - comprese le bugie propinate alla madre per farsi finanziare i crimini - contengono davvero un principio di affetto, di senso di colpa e pentimento, oppure sono l'ennesima trovata per estorcere un nuovo favore e mettersi in salvo dal pericolo.
Un interrogativo al quale è facile che troveremo risposta in base alla nostra malizia. Specialmente a seguito di un finale beffardo, nel quale Reichardt finalmente decide di servirsi di quel sarcasmo che aveva dimenticato all'inizio. Costruendo una sequenza assai notevole e inserendo dei particolari con cui vorrebbe andare addirittura a impreziosire lo spessore della sua pellicola. Un tentativo comprensibile, sicuramente tardivo e quindi non sufficiente a salvare le sorti di una storia che non consente mai allo spettatore di entrare troppo al suo interno, di appassionarlo, svanendo quasi completamente non appena giunti al termine della visione.
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