Tienimi Presente - La Recensione

Comincia con un pitch (per i neofiti: è l'esposizione breve e concisa di un film che si vorrebbe realizzare, eseguita davanti a un pubblico di potenziali produttori) al Festival di Venezia "Tienimi Presente", l'opera prima scritta, diretta e interpretata dal giovane Alberto Palmiero. Un pitch che, peraltro, sembra essergli andato anche piuttosto bene, per come il produttore Gianluca Arcopinto lo avvicina, a fine evento, congratulandosi con lui e lasciandogli un biglietto da visita per approfondire il progetto. Gesto che Alberto accoglie con gioia immensa, come il colpo di fortuna che stava aspettando (e in cui sperava), salvo accorgersi, un istante dopo, che quella persona si sta comportando allo stesso modo, con ogni partecipante del concorso.

La classica fregatura, insomma, sperimentata almeno una volta da chiunque abbia provato o stia provando a fare cinema (o arte in generale) in questo paese (o altrove, magari): specie se non si è "figli di qualcuno" e si è costretti a partire dalle retrovie. Tant'è che Alberto è esausto, non ce la fa più, il cinema lo ha deluso, è un amore che non ricambiato, quindi molla Roma e se ne torna a Caserta, dai genitori. Una scelta che ricorda molto quella che prendeva Valerio Mastandrea in un altro - bellissimo - film, il "Non Pensarci" di Gianni Zanasi e pure li, la malinconia percepita e il bisogno di scacciar via la solitudine, muovevano il protagonista (musicista aspirante) in un viaggio a ritroso, con risvolti assai diversi da quelli immaginati. Perché quando torna in provincia Alberto si accorge di essere più alieno di quanto già non lo fosse a Roma, i suoi parenti non lo capiscono ("Che lavoro fai?"), i suoi coetanei sono per lo più già sposati, emigrati, realizzati. Lui, invece, ha appena rinunciato a ciò che ha inseguito per una vita e che, ancora, continua a scherzare con lui tramite inviti a concorsi assurdi che gli regalano premi assurdi altrettanto. E' un pugile KO, in sostanza, ma con nessuna voglia di rimettersi in piedi, nonostante sia cosciente e l'arbitro non abbia ancora decretato la chiusura del match.
Eppure, a chi lo interroga su cosa farebbe nel caso in cui vincesse al superenalotto, lui risponde che la sua vita gli sta bene così, che con quei soldi, al massimo, gli interessa(va) fare un film.

E, allora, è facilissimo lasciarsi travolgere da "Tienimi Presente", dalla crisi e dai sogni infranti di Alberto che rappresentano un po' gli stessi di una generazione intera (e non solo). Di quella che ci prova, che si danna, ma che deve vedersela sempre con muri di gomma, impossibili da penetrare. Tanto che, a volte, capita di pensare che non dipenda neppure troppo da noi la conquista, che sia questione di fortuna, di casualità: magari di altezze, come suggerisce una delle tante scene divertenti del film. E Palmiero - inteso come sceneggiatore e regista, non come personaggio - riesce a comunicarlo benissimo questo disagio, questo sconforto, questa paura di non essere abbastanza bravi, di sentirsi banali, o di trovarsi, semplicemente, nel posto sbagliato per noi. Lo fa con la sua tenerezza, con l'imbarazzo, con la sincerità e l'umorismo di chi, comunque, quel disagio lo ha vissuto - non è difficile intuire che molto materiale sia autobiografico - e ne è uscito (anche) imparando a (ri)conoscere l'importanza e il sostegno della leggerezza, che non significa rinunciare a scavare in profondità.

Perché "Tienimi Presente", quando meno te lo aspetti, in profondità ci scava e ti squarcia in due (o, almeno, a me ha squarciato in due) e lo fa con un monologo meraviglioso in cui, un amico di Alberto, si rifiuta - romanticamente - di aiutarlo, di fronte alla sua richiesta di rientrare nel mondo dell'informatica. La reazione che subisce, quasi rabbiosa dell'ex collega, è simile al discorso di Antonio Capuano che Paolo Sorrentino aveva inserito in "E' Stata La Mano Di Dio", di quelli quindi che ti smuovono, che ti (ri)accendono, facendoti - appunto - tornare a sentire vivo e illuminandoti il percorso ("E a me che me ne frega se tu non sei bravo?"). E' il momento più commovente - e da brividi - del film di Palmiero, quello che ne consacra il talento e che ci fa capire come sia riuscito a coinvolgere nel suo esordio persino un nome grandissimo del nostro cinema come quello di Marco Bellocchio, qui produttore e, in qualche modo, cameo d'eccezione.

Del resto, storie e voci come quelle di Palmiero sono fondamentali per il nostro cinema, per ciò che portano, per come lo portano e soprattutto per come stimolano la creatività e la voglia di fare questo mestiere. La speranza è che il suo caso non resti raro o isolato e che apra le porte a nuovi giovani autori con idee altrettanto intense e brillanti.
Forse l'unica strada per tentare di rilanciare e tenere a galla un'industria, circondata da troppe persone (influenti), là fuori, interessate più a distruggere che a costruire.

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