Una bella storia, come si dice ultimamente, è quella che porta al cinema “Lights Out”. Figlia delle dinamiche e dei tempi che viviamo, senz'altro, perché figlia di internet e delle sue potenzialità. David F. Sandberg infatti è un videomaker indipendente che sul suo canale Youtube si diverte spesso a giocare con delle trovate originali, a cimentarsi con il genere horror, e tra le varie sperimentazioni, qualche anno fa, diede vita ad un cortometraggio così agghiacciante, da risuonare prepotentemente in lungo e in largo tra articoli dedicati online e condivisioni su bacheche dei social. Il cortometraggio in questione (cioè questo), come avrete intuito, si intitolava proprio “Lights Out” e vedeva una donna (la moglie di Sandberg), alle prese con una strana presenza in casa, che appariva e scompariva con lo spegnersi e con l’accendersi della luce. Come gli spettatori, nemmeno Hollywood rimase indifferente alla faccenda, proponendo a Sanberg l’opportunità, poi sfruttata, di trasformare quei circa tre minuti di filmato in un lungometraggio di ottanta. Qui, però, ecco che comincia un’altra storia, una storia dal finale diverso. Meno bella della precedente.
Perché per diventare film “Lights Out” passa dalle mani del suo creatore in quelle dello sceneggiatore Eric Heisserer: esperto di horror commerciali, riferimento per le major, ma carente di vena creativa e capacità di sorprendere. In mano a lui la trovata di Sandberg – che resta al timone della regia – guadagna, in breve tempo, lo spazio di stendersi e di dilatarsi nella trama, adattandosi al nuovo ambiente, col contraccolpo, tuttavia, di snaturalizzarsi e di perdere di efficacia. Spariscono i pro evidenziati dalla versione corta, allora, quelli di un male sconosciuto, inesorabile, che gode a prendersi gioco della sua vittima e a guardarla soffrire prima di farla sua. In questa rivisitazione industriale è tutto più prevedibile e telefonato: c’è uno scopo, un motivo per cui questo male agisce, quindi l’ineluttabilità viene ridotta, assieme alla dose di terrore che si fa minima e che, man mano, smette di essere presente.
Il passaggio dal piccolo al grande schermo, dunque, ridimensiona al contrario le potenzialità del regista e le sue prospettive. Quella che sul web era sembrata una persona a cui fornire fiducia, un talento da tenere d’occhio, che aveva con sé qualcosa di nuovo da dire e da esporre, improvvisamente - non sappiamo se per sua colpa o se per colpa di terzi – finisce con l’assomigliare a tutti gli altri, a proporre il solito menù da fast-food, deludendo persino nello stile e nella confezione.
Ci si aspettava aria fresca da “Lights Out”, la conferma che una volta concesso il microfono ad una delle voci nascoste della rete, la parola emessa fosse assai migliore di quella detta sempre dai soliti. Ed è questa, in sostanza, la delusione maggiore del film, il fallimento più grande di Sandberg e della sua bella storia. A prescindere da qualsiasi altro discorso relativo alle qualità del suo film, a non andare giù minimamente è stato il suo non farsi trovare pronto: non farsi trovare pronto a rispondere come si deve alla chiamata; non farsi trovare pronto (forse) a rispondere a una major con l’arroganza di chi sa concedersi, ma a modo suo; non farsi trovare pronto (in caso) a dire: “No, grazie. Non penso sia una buona idea. Lo script non mi convince. Forse è meglio che ci prendiamo più tempo e che me ne occupi io personalmente”.
Perché alla lotteria non si vince tutti i giorni e quando succede è bene che gli investimenti siano oculati, pensanti e non gettati alle ortiche dall'entusiasmo e dalla foga del momento. Sandberg, purtroppo, si è lasciato travolgere troppo dalla frenesia, invece, ha messo da parte la lucidità casalinga che lo contraddistingue affidando tutto sé stesso a chi, al contrario, avrebbe dovuto affidarsi a lui. Celebrando uno di quei matrimoni poco felici dove l’amore, forse, è destinato a non dover sbocciare.
Un po’ come per il suo corto che, evidentemente, era destinato a restare corto.
Trailer:
Perché per diventare film “Lights Out” passa dalle mani del suo creatore in quelle dello sceneggiatore Eric Heisserer: esperto di horror commerciali, riferimento per le major, ma carente di vena creativa e capacità di sorprendere. In mano a lui la trovata di Sandberg – che resta al timone della regia – guadagna, in breve tempo, lo spazio di stendersi e di dilatarsi nella trama, adattandosi al nuovo ambiente, col contraccolpo, tuttavia, di snaturalizzarsi e di perdere di efficacia. Spariscono i pro evidenziati dalla versione corta, allora, quelli di un male sconosciuto, inesorabile, che gode a prendersi gioco della sua vittima e a guardarla soffrire prima di farla sua. In questa rivisitazione industriale è tutto più prevedibile e telefonato: c’è uno scopo, un motivo per cui questo male agisce, quindi l’ineluttabilità viene ridotta, assieme alla dose di terrore che si fa minima e che, man mano, smette di essere presente.
Il passaggio dal piccolo al grande schermo, dunque, ridimensiona al contrario le potenzialità del regista e le sue prospettive. Quella che sul web era sembrata una persona a cui fornire fiducia, un talento da tenere d’occhio, che aveva con sé qualcosa di nuovo da dire e da esporre, improvvisamente - non sappiamo se per sua colpa o se per colpa di terzi – finisce con l’assomigliare a tutti gli altri, a proporre il solito menù da fast-food, deludendo persino nello stile e nella confezione.
Ci si aspettava aria fresca da “Lights Out”, la conferma che una volta concesso il microfono ad una delle voci nascoste della rete, la parola emessa fosse assai migliore di quella detta sempre dai soliti. Ed è questa, in sostanza, la delusione maggiore del film, il fallimento più grande di Sandberg e della sua bella storia. A prescindere da qualsiasi altro discorso relativo alle qualità del suo film, a non andare giù minimamente è stato il suo non farsi trovare pronto: non farsi trovare pronto a rispondere come si deve alla chiamata; non farsi trovare pronto (forse) a rispondere a una major con l’arroganza di chi sa concedersi, ma a modo suo; non farsi trovare pronto (in caso) a dire: “No, grazie. Non penso sia una buona idea. Lo script non mi convince. Forse è meglio che ci prendiamo più tempo e che me ne occupi io personalmente”.
Perché alla lotteria non si vince tutti i giorni e quando succede è bene che gli investimenti siano oculati, pensanti e non gettati alle ortiche dall'entusiasmo e dalla foga del momento. Sandberg, purtroppo, si è lasciato travolgere troppo dalla frenesia, invece, ha messo da parte la lucidità casalinga che lo contraddistingue affidando tutto sé stesso a chi, al contrario, avrebbe dovuto affidarsi a lui. Celebrando uno di quei matrimoni poco felici dove l’amore, forse, è destinato a non dover sbocciare.
Un po’ come per il suo corto che, evidentemente, era destinato a restare corto.
Trailer:
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