King Arthur: Il Potere Della Spada - La Recensione

King Arthur: Il Potere Della Spada Ritchie
Guy Ritchie è uno di quei registi, rari, che i loro film non li sviluppano in fase di ripresa, ma in quella di montaggio. La sua forza, che poi è pure il suo tratto distintivo più rappresentativo, è il riuscire a giocare e a pensare in anticipo a come andare a tagliare e a cucire poi il materiale in post-produzione, riuscendo a comporre sequenze incredibilmente geniali, divertenti ed efficaci dove rallenti, accelerazioni e bruschi stacchi producono quello spettacolo ironico e adrenalinico, obiettivamente irresistibile.

Si tratta di un processo complicato, che se non hai confidenza con il mezzo, se non sai di preciso a cosa ambisci, oppure come funziona il linguaggio cinematografico non puoi assolutamente permetterti di prendere in considerazione; un processo che può aumentare vertiginosamente il livello del tuo lavoro se il tuo lavoro è già buono, ma anche salvarti dalla catastrofe assoluta se ciò a cui stai lavorando non ti appartiene concretamente perché trattasi di progetto su commissione. E quest’ultimo caso è proprio quello a cui appartiene “King Arthur: Il Potere Della Spada”: un film che ripercorre la leggenda, il mito incrollabile di Re Artù e di Excalibur, seguendo però una struttura fantasy macchinosa e marcata, non in linea con le ideologie più ragionate e anticonformiste di un ribelle come Ritchie, che non a caso, a stargli dietro, da come l’impressione di avere addosso delle catene ingombranti, con cui litiga e fa i conti praticamente ad ogni passo. Ci mette un po’, allora, ad ingranare il regista, a trovare il giusto compromesso tra forma rock e sostanza (grossomodo) classica, deve prima passare per un prologo noioso e piuttosto pesante - uno di quelli che fanno cadere nell’immediato ogni speranza positiva di riuscire a immaginarlo libero e preda del suo estro e dei suoi tipici assoli – e poi assecondare tutta una serie di passaggi meccanici dai quali non può sottrarsi per non rischiare di perdere le sacre fila di una storia che paradossalmente sembra dare il meglio di sé stessa quando in pausa dall’azione.

King Arthur Charlie HunnamPerché è nelle pause, in fondo, che Ritchie può smettere di pensare a cosa deve fare, dando sfogo, invece, a quello che vuole fare, quello che gli riesce meglio: come dimostra la scena che segue al prologo di cui sopra, che con la sola energia di un montaggio rapidissimo, fatto di tantissimi tagli e nessun dialogo, riesce a mostrare in maniera lucida e scrupolosa la crescita di Artù, il suo carattere e insieme l'ambiente modesto e sudicio in cui è stato accolto e allevato. Una serie di momenti straordinari, di tecnica cinematografica straordinaria, che il regista utilizza non appena ha l'opportunità buona per poterlo fare, recuperando in un solo colpo sia il ritmo che l'intrattenimento della sua pellicola, persi entrambi a ripetizione a causa dell'eccessiva zavorra indossata, tipica dei blockbuster moderni, che in questo caso, col senno di poi, sarebbe stato meglio non mettere provando a marciare più leggeri. Bisogna arrivare al terzo atto infatti per smettere di vivere di sussulti, di picchi estemporanei, e assaporare finalmente un'amalgama accettabile capace di fare incontrare a metà strada gli intenti sia del regista che dell'opera: per avere quindi un piacere visivo continuo ed esaltante dal punto di vista registico come narrativo.

Una tempistica che, di norma, sarebbe da considerarsi negativa, non sufficiente a salvare le sorti di un prodotto come questo, ma come accennato all'inizio Ritchie non è un regista come gli altri, è particolare, raro, perciò gli basta un pizzico di tecnica e una manciata di umorismo spregiudicato per coprire piuttosto bene quasi tutte le magagne lasciate per strada, portando a casa una pellicola che, nonostante il suo altalenare e i suoi difetti indiscutibili, riesce a regalare discrete dosi di piacere e di risate e a superare di gran lunga la concorrenza media dei concorrenti surrogati.

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