Lady Bird è il soprannome con il quale ha voluto ribattezzarsi autonomamente la Christine MacPherson interpretata da Saoirse Ronan. Un nome particolare, insolito, a cui lei però tiene molto al punto da obbligare mamma, papà e fratello ad utilizzarlo ogni volta che intendono coinvolgerla per socializzare. Il culmine di una ribellione giovanile dovuta principalmente alla voglia di evadere della ragazza, disposta a fare carte false per fuggire dalla città di Sacramento – dove dice di abitare, tra l’altro, dalla parte sbagliata della ferrovia – e iscriversi a un college che sia, magari, collocato nella metropoli caotica di New York, città sicuramente più adatta alle sue (grandi) ambizioni.
Praticamente un uccello in gabbia, sofferente perché costretto a chiudere le ali e a non volare alto come il suo istinto gli chiede e lei stessa vorrebbe, tarpata da una famiglia - in primis da una madre, secondo il suo punto di vista - che non può permettersi (e non vuole, anche) economicamente di sostenere le spese utili a pagare quel biglietto in grado di liberarla e condurla alle altitudini che gli spettano e - soprattutto - che considera appropriate. E allora soffre Lady Bird, si adatta a non perdere la pratica volteggiando circolarmente all’interno della sua prigione, ma dentro di sé, in realtà, studia il piano più efficace che possa aiutarla a fuggire via, verso il suo destino; prova ad allietare la permanenza in quello che per lei è peggio di un carcere attraverso la recitazione e le prime cotte, ma le barriere culturali, ecclesiastiche e un po' di sfortuna la convincono ulteriormente di non potersi adattare a ciò che proprio non gli appartiene. Neppure il provare a passare, con astuzia, dalla parte giusta della ferrovia si rivela essere per lei una boccata d’ossigeno, forse perché non tarata secondo gli standard di superficialità richiesti per sopravvivere su quella sponda.
Una tragedia, insomma? No, solo l’adolescenza.
Ci porta nei luoghi della sua infanzia, infatti, Greta Gerwig, per esordire alla regia con una pellicola (semi)autobiografica capace di raccontare con grande aderenza i conflitti interni, i capricci e i rapporti con un mondo esterno - considerato ostile, in tutto e per tutto - che possono invadere la vita di una ragazza (o ragazzo) di periferia, pronta ormai ad essere lanciata verso le porte enigmatiche dell’età adulta. Un percorso non molto distante da quello che l'ha riguardata personalmente, sviscerato con la maturità intima e artistica, raggiunta solo nel corso degli anni, che gli permette, ora, di potere avvicinarsi alla ragazzina che era (?) ponendosi esattamente alla giusta distanza: distribuendo perciò con molta cura la drammaticità e l’ironia di una storia passionale e impetuosa come la protagonista (esemplare) che la fa da padrona, ma che ha anche il grosso pregio di andare a centrare, di rimbalzo, la mentalità e le radici di un luogo che, pur facendo parte degli Stati Uniti, culturalmente e civicamente, pare essere lontano anni luce dal progresso.
Un luogo che la Gerwig di allora – e non stentiamo a crederci – probabilmente non vedeva l’ora di mettersi alle spalle, di lasciarsi indietro per correre verso il flirt suggestivo e carnale di una New York attaccata al cuore dai terroristi (siamo nel periodo post-Torri Gemelle) e quindi vulnerabile e più accessibile. Ma un luogo, anche, al quale la Gerwig di oggi sentiva il bisogno, probabilmente, di dichiarare il suo amore, di chiedere scusa, attraverso un film sincero ed emozionante, abile a parlare di gioventù, maturità, famiglia e amicizia con una leggerezza che solo pochi altri in circolazione.
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