Jurassic World: Il Regno Distrutto - La Recensione

Jurassic World: Il Regno Distrutto
Fare meglio di Colin Trevorrow era il minimo, dare un senso al rilancio di un franchise legittimamente assopito, il massimo.
Juan Antonio Bayona prende allora una patata bollente – di quelle che chiunque abbia qualcosa da perdere ne farebbe volentieri a meno – e accetta la sfida di pelarla e maneggiarla a suo modo, nonostante una sceneggiatura – scritta ancora dal duo Trevorrow / Derek Connolly – che già dopo la prima scena lascia intendere che il massimo obiettivo di cui sopra non verrà portato a casa.

Però.
Però il cambio di regia – non di scrittura, appunto – all’interno della pellicola si sente subito, così come la voglia di tornare – intelligentemente - alle origini spielbergiane che tanto (ci) erano mancate al “Jurassic World” di tre anni fa. Prova all’istante a rinnegare la figura del mero esecutore Bayona, insomma; a prendere l’abito anonimo, realizzato a livello industriale e consegnato nelle sue mani, con l’intento di personalizzarlo secondo uno stile personale che prevede come primo step un bagno nell’horror, oggettivamente necessario e piacevole. Un processo che continua attraverso una regia decisamente più dinamica e spettacolare, interessata a ricercare soluzioni visive impressionanti che strizzano sempre l’occhio al dinosauro cattivo di turno, stavolta dotato spesso di furbizia e ironia. Pochi accorgimenti che cambiano profondamente l’essenza della visione, che rendono un blockbuster potenzialmente freddo, calcolato e imbottito di effetti speciali, un prodotto di intrattenimento piacevole, seppur non indimenticabile. Perché, si sa, le premesse a disposizione – almeno le più utilizzate – per questo genere di storie ormai lasciano a desiderare, o comunque tendono a fare acqua da svariate parti: complice anche un pubblico di riferimento disponibilissimo a chiudere un occhio – o magari entrambi – in cambio di un divertimento sfrenato e calibrato verso nuove vette.

Jurassic World: Il Regno Distrutto Chris PrattVette che in “Jurassic World: Il Regno Distrutto” non sono mai davvero alte come avremmo sperato, a volte si permettono il lusso di alzare la cresta, di mostrare i canini, ma senza arrivare a mordere ferocemente, facendoci saltare dalla poltrona (e dire che, col 3D, si sarebbe potuto osare). Dobbiamo accontentarci, dunque, di qualche singolo acuto, di un traguardo che stavolta è più ambizioso del precedente perché mira a lanciare un evoluzione e a istituire un mondo nuovo: quello ispirato palesemente al reboot de "Il Pianeta Delle Scimmie", ma con i dinosauri (tutti). Un salto nel vuoto che la pellicola avvia – paradossalmente - con una caduta di asteroidi cui fanno seguito una serie di ribaltamenti e cambi di ambiente (anche il semplice passaggio da esterno-giungla e interno-dimora) volti ad allegerirne la portata e ad agevolarne la fruizione: rendendo, di fatto, meno fastidiosi dei cliché scontati e imbarazzanti.
Evitabile - per quanto inserita a forza, irrigata e comoda - tutta la parentesi "seria/animalista", relativa ai dinosauri e alla loro salvaguardia, e questo non tanto per cinismo, quanto per uno storico conosciuto - peraltro citato - che è impossibile non considerare o trascurare in determinati momenti clou: a meno che - è ovvio - a comandare non debba essere la necessità di una trama che non può far altro che girare in quell'angolo, augurandosi di non risultare troppo ridicola.

Perché un po' ridicolo lo è per forza un film orientato a liberare, volontariamente, Tirannosauri Rex,  Velociraptor e incroci genetici da far intimidire uno squalo, nella civiltà moderna. Poi che sia tutto frutto di un disegno superiore, che si cerchi di giustificarlo il più possibile (filosoficamente, scientificamente e umanamente, anche) e che - in certi attimi - ci si riesca pure, è un altro paio di maniche. Di certo c'è la sicurezza che difficilmente - a meno di un miracolo - Jurassic World potrà avvicinarsi alla solidità di un franchise come Il Pianeta Delle Scimmie recente; al massimo può provare a scimmiottarlo, sebbene forse gli convenga più, limitarsi a euforizzare con qualità.

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