Unsane - La Recensione

Unsane Soderbergh
Una cosa dobbiamo ammetterla: da quando ha annunciato di volersi ritirare dal cinema, il cinema di Steven Soderbergh è migliorato sensibilmente. Sembra un’assurdità, eppure – perlomeno secondo il gusto di chi scrive – i migliori titoli della sua filmografia son venuti fuori dopo quel 2011 in cui ammise di voler smettere con la macchina da presa per dedicarsi anima e corpo alla pittura.
Una promessa che - a questo punto - speriamo continui a non essere smentita e, allo stesso tempo, a non essere rispettata, perché con questi due salvagenti ai lati, il regista di “Ocean’s Eleven” pare riuscire a ragionare con meno pressioni addosso, a sperimentare liberamente e a piacimento e a realizzare opere sbalorditive come “Unsane”.

Un horror, nelle premesse, che ha finito col trasformarsi - a conti fatti – in un thriller psicologico emotivamente ansiogeno ed esteticamente distorto. La storia di una ragazza in fuga dal suo passato che, in un momento di debolezza e fragilità della sua vita, si ritrova - dopo un normale colloquio con una specialista psichiatrica - prigioniera di un centro per malati mentali che non ha più intenzione di lasciarla uscire. Questo mentre l’uomo da cui era fuggita, cambiando città, torna a stalkerarla nelle fattezze di medico notturno, mettendo in seria discussione la sua incolumità e presunta stabilità psicologica. Un canovaccio neppure troppo inedito, quindi, se non fosse per la modalità di ripresa voluta da Soderbergh, il quale decide di girare l’intera pellicola avvalendosi, non delle solite camere professionali, ma di tre iPhone 7 (potenziati da un’app e qualche accessorio aggiuntivo). Tecnica che gli concede la possibilità di collocare l’obiettivo a distanze impossibili, più ravvicinate rispetto a quelle considerabili se avesse avuto a disposizione, invece, un’attrezzatura standard, potendo così aumentare l’utilizzo dei primi piani e accentuare le eventuali distorsioni d’immagine, utili ad amplificare narrativamente e percettibilmente quel senso di pericolosità e confusione che in “Unsane” si trascina quasi fino ai titoli di coda.

Unsane SoderberghPerché - che lo pensiate o meno – la direzione cui mira la pellicola è totalmente diversa da qualsiasi altro surrogato possa somigliargli a primo impatto. Soderbergh, infatti, punta moltissimo a giocare sulle atmosfere, sull’intesa costruita tra lui-regista e lo spettatore: che non rimane mai solo cercando di anticipare la risoluzione, ma viene foraggiato da indizi ben precisi che puntano a farlo rimanere sempre al passo con l’avanzare (e col ribaltamento) degli eventi. Eventi che in “Unsane” non sono mai scontati e gratuiti, bensì aggrappati a un’attualità strettissima che il suo regista – verificando i tempi di produzione – inconsapevolmente anticipa provocando, forse, più rumore di quel che aveva in mente. La tematica delle molestie – finta o vera che sia, guai a spoilerare – non passa inosservata, del resto; in un momento storico dove esistono movimenti a riguardo e caccie ai carnefici, una vicenda così – con delle pieghe, tra l’altro, piuttosto forti e spaventose – è indirizzata certamente a far discutere e a far alzare volume al dramma.

E questo nonostante il compito di “Unsane” sia esclusivamente quello di fare bene il suo lavoro, ovvero di onorare il suo genere di riferimento, facendosi portatore, inoltre, di una sceneggiatura di ferro, solidissima, capace di incollarti alla poltrona e di regalarti qualche sussulto imprevisto, con punte di angoscia e panico in omaggio.
Merito di un regista, giunto oggi all’apice della sua maturazione e consapevolezza artistica e anche di un’attrice come Claire Foy, strepitosa e meritatamente in ascesa.

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