Per quanto mi riguarda, lo ammetto, ci avevo perso le speranze.
Era dal 2006 che – per me - Spike Lee aveva smesso di essere Spike Lee, da dopo “Inside Man”: da quando ha cominciato a inanellare una serie di insuccessi e pellicole al di sotto del suo talento, raschiando un fondo che ormai lo aveva praticamente spazzato via dalla scena degli autori (affermati) da seguire e da non perdere di vista. Perché, la verità, è che negli ultimi anni un po’ a Spike di vista lo abbiamo perso in molti, considerandolo (artisticamente) svuotato, in crisi d’identità e smarrito (ah, il plurale è volontario: siate onesti).
Un grande, grandissimo errore.
Ci voleva Donald Trump Presidente degli Stati Uniti d’America, forse, per risvegliare bruscamente il regista de “La 25^ Ora” dal suo intorpidimento, per rimettere a fuoco le lenti dei suoi occhiali da vista e – soprattutto – quella vena brillante e feroce al punto giusto, capace di raccontare storie drammatiche - o dolce-amare che siano - con il ritmo e la vivacità necessari a far breccia. Con “BlacKkKlansman” – che come potrete intuire dalle tre K che spiccano nel titolo, parla di razzismo (ma del razzismo-tutto) – infatti è subito colpo di fulmine: è sufficiente assistere al prologo in cui un goffo Alec Baldwin registra uno spot in cui rivendica il diritto a difendere la razza bianca ariana d’America e alla scena successiva dove l’aspirante detective nero, Ron Stallworth, sostiene un colloquio di lavoro che lo porterà a diventare il primo agente di polizia non-bianco di Colorado Springs, per intuire con che genere di toni, il regista, ha intenzione di maneggiare il materiale e le vicende di quella che poi è una storia – come viene specificato letteralmente in apertura –fottutamente vera. Una storia radicata temporalmente negli anni ’70, ma che, se non fosse per l’acconciatura sferica di John David Washington (si, il figlio di Denzel), i costumi e qualche riferimento storico sparso qua e là, non farebbe certamente fatica a risultare figlia della cronaca attuale.
Era dal 2006 che – per me - Spike Lee aveva smesso di essere Spike Lee, da dopo “Inside Man”: da quando ha cominciato a inanellare una serie di insuccessi e pellicole al di sotto del suo talento, raschiando un fondo che ormai lo aveva praticamente spazzato via dalla scena degli autori (affermati) da seguire e da non perdere di vista. Perché, la verità, è che negli ultimi anni un po’ a Spike di vista lo abbiamo perso in molti, considerandolo (artisticamente) svuotato, in crisi d’identità e smarrito (ah, il plurale è volontario: siate onesti).
Un grande, grandissimo errore.
Ci voleva Donald Trump Presidente degli Stati Uniti d’America, forse, per risvegliare bruscamente il regista de “La 25^ Ora” dal suo intorpidimento, per rimettere a fuoco le lenti dei suoi occhiali da vista e – soprattutto – quella vena brillante e feroce al punto giusto, capace di raccontare storie drammatiche - o dolce-amare che siano - con il ritmo e la vivacità necessari a far breccia. Con “BlacKkKlansman” – che come potrete intuire dalle tre K che spiccano nel titolo, parla di razzismo (ma del razzismo-tutto) – infatti è subito colpo di fulmine: è sufficiente assistere al prologo in cui un goffo Alec Baldwin registra uno spot in cui rivendica il diritto a difendere la razza bianca ariana d’America e alla scena successiva dove l’aspirante detective nero, Ron Stallworth, sostiene un colloquio di lavoro che lo porterà a diventare il primo agente di polizia non-bianco di Colorado Springs, per intuire con che genere di toni, il regista, ha intenzione di maneggiare il materiale e le vicende di quella che poi è una storia – come viene specificato letteralmente in apertura –
Eppure non è per il messaggio di un cambiamento che non c’è ancora stato, o che tarda a uniformarsi globalmente, che “BlacKkKlansman” trova le forze di imporsi e di sbaragliare ogni scetticismo. La brillantezza della pellicola di Lee deriva dalla superiorità e dall’apparente leggerezza – per nulla scontata – con cui un argomento così spinoso e sulla cresta dell’onda, come l’integrazione, viene manipolato: mettendo da parte, quindi, quel sangue agli occhi e quella frustrazione che, teoricamente, avrebbero avuto tutto il diritto di essere espressi e rivendicati dal suo artefice. Invece la parabola di questo afro-americano infiltratosi nel Ku Klux Klan - con l’aiuto di un collega bianco necessario per i faccia a faccia coi membri dell'organizzazione – regala parentesi grottesche di irresistibile cinema, parentesi nelle quali si riesce a ridere di gusto pur percependo, al di là della superficie, quel fastidioso senso di ipocrisia e di ignoranza diffusa che chiaramente si tenta - anche attraverso l'uso di estremizzazioni - di evidenziare e schernire.
Allora non basta la punta d’amaro con cui il suo film sceglie di volgere al termine, è fondamentale aggiungere - prima dei titoli di coda - filmati giornalistici, non di finzione e datati 2017, volti a evidenziare quanto sia poco riconoscibile, o nullo, lo scarto epocale che dovrebbe andare a indicare i quasi cinquant’anni di (non)progresso. La bastonata definitiva di un lavoro dove tutto - personaggi, dialoghi e sprazzi di (buona) retorica, compresa - sta lì a confermare la lucidità, l'energia e la voglia di ripartire di un autore che, davvero, ci era mancato tantissimo.
Trailer:
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