Lui nega, eppure le sembianze dell’instant-movie, “Tolo Tolo”, ce le ha, eccome.
Talmente sul pezzo, talmente ficcante e talmente aperto com’è, al sentimento italiano (e generale) e alle notizie di cronaca dell’ultimo periodo, da far pensare di essere stato ampliato e modificato in corso d’opera. Chiaramente ci stiamo riferendo alla questione migranti e all’altra, ancor più spinosa, relativa all’intolleranza (al fascismo): che nel film Luca Medici, in arte Checco Zalone, paragona col suo solito fare ingenuo alla candida, ovvero a un disturbo che si manifesta in situazioni di stress e di caldo.
Però, poi, a pensarci bene ti rendi conto che no, che sarebbe stato troppo complicato strutturare “Tolo Tolo” in quel modo. Più complicato di quanto non sia già stato il dover girare in Africa (tra numerosissime comparse), praticamente la maggior parte dell’intera pellicola. E questo perché è lì che si rifugia Checco quando – sommerso dai debiti, dalle tasse e dalle ire delle due ex-mogli – decide di ricominciare da zero per continuare a sognare : ignaro che a breve una guerriglia lo costringerà a fuggire, a scappare ancora, e a intraprendere – dopo una serie di peripezie – quel cosiddetto viaggio della speranza che spinge milioni di migranti a rischiare la vita tra le acque del Mar Mediterraneo, auspicando di raggiungere, sani e salvi, alla fine, un porto sicuro (e aperto). Una sceneggiatura – nata da un soggetto di Paolo Virzì, sviluppato da lui e Zalone a quattro mani – che pare quasi volersi fare carico degli slogan politici cavalcati da una certa e nota maggioranza, analizzandoli da vicino e dando visione (e risposte) concreta – che, in questo caso, è farsesca, ma non priva di dramma – di una realtà e di determinate condizioni, magari non propriamente note a coloro che si limitano a lavarsi la coscienza (o a nascondersi) dietro frasi come “aiutiamoli a casa loro”, “la pacchia è finita” e l’evergreen “prima gli italiani”.
Così, all’improvviso, il nero – il migrante – è bianco e italiano. E non un italiano onesto, ma un italiano farabutto, ignorante, egoista. Un italiano che, nonostante l’accoglienza ricevuta – e che gli ha consentito di non pagare per i reati commessi nel suo paese – nel momento del bisogno tende – istintivamente – a voltare le spalle a coloro che lo hanno aiutato, a pensare ai suoi minuscoli problemi, sviluppando impulsi mussoliniani quando la sua parola o la sua cultura vengono meno. Orfano di Gennaro Nunziante allora – l’uomo che l’aveva gestito (e controllato) dall’inizio del suo percorso cinematografico, curando le regie fino a “Quo Vado?” – Zalone cambia poco pur cambiando molto; propende meno verso la risata di pancia, e di gusto, amplificando il suo interesse e la sua poetica verso la commedia all’italiana classica: quella di Alberto Sordi, di Ettore Scola (da lui stesso citati, seppur ammettendone il divario incolmato). Da studente in gamba (e molto intelligente) ruba con astuzia e impara in fretta i trucchi del mestiere, realizzando forse la sua opera più ambiziosa, perché maggiormente politica e schierata. Un’opera non esente da difetti (di scrittura), a cui (secondo chi scrive) manca paradossalmente un effettivo finale, ma carica di risorse per farci sorridere con amarezza e metterci allo specchio privi di qualunque ipocrisia: come se l'intento (politico) – già smentito – fosse quello furbo di utilizzare il suo prestigio e il suo vestito nazionalpopolare, per fungere da ultima ancora di salvezza (e redenzione) per questo paese.
Perché laddove un comico può permettersi di fondare un partito politico, influenzando la gente a tal punto da arrivare al Governo in pochissimi anni, è possibile che sia necessario ricorrere alla stessa medicina per provare a sensibilizzare e a informare l’opinione pubblica su un argomento trattato (manipolato?) spesso in maniera superficiale ed in forma propagandistica.
E la medicina, stavolta, forse porta sulla scatola il nome di Checco Zalone.
Anche se, probabilmente, se glie lo chiedessimo, lui sarebbe pronto a negare anche questo.
Trailer:
Talmente sul pezzo, talmente ficcante e talmente aperto com’è, al sentimento italiano (e generale) e alle notizie di cronaca dell’ultimo periodo, da far pensare di essere stato ampliato e modificato in corso d’opera. Chiaramente ci stiamo riferendo alla questione migranti e all’altra, ancor più spinosa, relativa all’intolleranza (al fascismo): che nel film Luca Medici, in arte Checco Zalone, paragona col suo solito fare ingenuo alla candida, ovvero a un disturbo che si manifesta in situazioni di stress e di caldo.
Però, poi, a pensarci bene ti rendi conto che no, che sarebbe stato troppo complicato strutturare “Tolo Tolo” in quel modo. Più complicato di quanto non sia già stato il dover girare in Africa (tra numerosissime comparse), praticamente la maggior parte dell’intera pellicola. E questo perché è lì che si rifugia Checco quando – sommerso dai debiti, dalle tasse e dalle ire delle due ex-mogli – decide di ricominciare da zero per continuare a sognare : ignaro che a breve una guerriglia lo costringerà a fuggire, a scappare ancora, e a intraprendere – dopo una serie di peripezie – quel cosiddetto viaggio della speranza che spinge milioni di migranti a rischiare la vita tra le acque del Mar Mediterraneo, auspicando di raggiungere, sani e salvi, alla fine, un porto sicuro (e aperto). Una sceneggiatura – nata da un soggetto di Paolo Virzì, sviluppato da lui e Zalone a quattro mani – che pare quasi volersi fare carico degli slogan politici cavalcati da una certa e nota maggioranza, analizzandoli da vicino e dando visione (e risposte) concreta – che, in questo caso, è farsesca, ma non priva di dramma – di una realtà e di determinate condizioni, magari non propriamente note a coloro che si limitano a lavarsi la coscienza (o a nascondersi) dietro frasi come “aiutiamoli a casa loro”, “la pacchia è finita” e l’evergreen “prima gli italiani”.
Così, all’improvviso, il nero – il migrante – è bianco e italiano. E non un italiano onesto, ma un italiano farabutto, ignorante, egoista. Un italiano che, nonostante l’accoglienza ricevuta – e che gli ha consentito di non pagare per i reati commessi nel suo paese – nel momento del bisogno tende – istintivamente – a voltare le spalle a coloro che lo hanno aiutato, a pensare ai suoi minuscoli problemi, sviluppando impulsi mussoliniani quando la sua parola o la sua cultura vengono meno. Orfano di Gennaro Nunziante allora – l’uomo che l’aveva gestito (e controllato) dall’inizio del suo percorso cinematografico, curando le regie fino a “Quo Vado?” – Zalone cambia poco pur cambiando molto; propende meno verso la risata di pancia, e di gusto, amplificando il suo interesse e la sua poetica verso la commedia all’italiana classica: quella di Alberto Sordi, di Ettore Scola (da lui stesso citati, seppur ammettendone il divario incolmato). Da studente in gamba (e molto intelligente) ruba con astuzia e impara in fretta i trucchi del mestiere, realizzando forse la sua opera più ambiziosa, perché maggiormente politica e schierata. Un’opera non esente da difetti (di scrittura), a cui (secondo chi scrive) manca paradossalmente un effettivo finale, ma carica di risorse per farci sorridere con amarezza e metterci allo specchio privi di qualunque ipocrisia: come se l'intento (politico) – già smentito – fosse quello furbo di utilizzare il suo prestigio e il suo vestito nazionalpopolare, per fungere da ultima ancora di salvezza (e redenzione) per questo paese.
Perché laddove un comico può permettersi di fondare un partito politico, influenzando la gente a tal punto da arrivare al Governo in pochissimi anni, è possibile che sia necessario ricorrere alla stessa medicina per provare a sensibilizzare e a informare l’opinione pubblica su un argomento trattato (manipolato?) spesso in maniera superficiale ed in forma propagandistica.
E la medicina, stavolta, forse porta sulla scatola il nome di Checco Zalone.
Anche se, probabilmente, se glie lo chiedessimo, lui sarebbe pronto a negare anche questo.
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