Madres Paralelas - La Recensione

Madres Paralelas Poster

Le madri parallele sono quelle di Penélope Cruz e di Milena Smit: che si conoscono in ospedale perché devono partorire proprio nello stesso giorno (e alla stessa ora). Coincidenza che in qualche modo le lega e le legherà per sempre, sia come genitrici e sia per un futuro che accidentalmente le vorrà unite imprescindibilmente.

Accadono delle cose, infatti, per cui la loro maternità sarà tutt’altro che semplice: avvenimenti per i quali si tenderanno la mano e faranno coppia (anche letteralmente), e notizie che le allontaneranno, pur non smettendo mai di farle incontrare. Il che è addirittura assurdo quando si parla di parallele, ma uno degli elementi di forza di Pedro Almodóvar (e del suo cinema) e di “Madres Paralelas” in generale, è esattamente questa voglia di emozionare, di prendere le certezze dello spettatore e non tanto frantumarle, quanto andarle leggermente a piegare, a plasmare. Perché un canovaccio così, onestamente, lo abbiamo visto e stravisto, e la conseguenza era quella di restare immuni nei confronti di una storia che allora rischiava di non avere niente di nuovo da dire. Uno scampato pericolo che deve i suoi frutti all’estro e alla passione di Almodóvar, che pur di evitare ricalchi è disposto a creare colpi di scena profondamente drammatici, che fanno male a sentirsi ma che rinvigoriscono e non poco la narrazione. Tant’è che certe dinamiche processate e avviate, di punto in bianco, vengono spazzate via completamente per far posto ad altre, inedite, che vanno a ribaltare la situazione, trasformando la vittima in carnefice e aprendo le porte a riflessioni – morali e non – che non possono non coinvolgere la nostra persona direttamente.

Madres Paralelas Almodovar

Che farei io al suo posto?
È una domanda che viene spontanea, arrivati al punto di non ritorno di “Madres Paralelas”. Ed è una domanda che, inoltre, serve al suo regista per riprendere un discorso gettato nell’incipit e lasciato temporaneamente in sospeso. Quello della memoria storica, delle radici: che ossessiona il personaggio di Cruz, assai determinata a recuperare gli scheletri di una fossa comune, nella quale è presente il suo bisnonno. Spunto che ad Almodóvar serve a imbastire tutta una tesi legata ai sessi e alle loro inclinazioni; una tesi sulla quale sembra avere le idee piuttosto chiare, pur lasciando margini di sfumature. Non è un caso, del resto, se i personaggi maschili della sua pellicola tendono ad essere orientativamente degli egoisti, e laddove non sono egoisti comunque preferiscono essere pratici. Un comportamento che – salvo il personaggio della madre di Ana: la sfumatura, appunto – non riesce a quasi nessuna delle sue donne: dominate da un istinto materno viscerale, destinato a muoversi oltre la prole e a sfociare in un preziosissimo (e vitale) senso di appartenenza.

Ed è una lettura possibile, accreditabile, che proprio grazie alla sua volontà di non apparire come netta, si fa accettare e valutare. Una lettura attraverso la quale il film prende colore, si anima, senza rischiare di risultare antipatico o costruito per agganciarsi a dibattiti recenti, nel tentativo ipocrita di schierarsi (politicamente) o non.
Un Almodóvar, insomma, distante dai suoi vertici, ma sicuramente ispirato, lucido e in ottima forma: tre aggettivi che potremmo prendere e incollare pure per definire l'interpretazione di Cruz.

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